L’EROTISMO NELLA CULTURA ORALE DELL’IRPINIA
Tre modi diversi, ma complementari, di ricercare e rielaborare questo aspetto particolare e non secondario dell’immaginario collettivo arcaico: Aniello Russo, Mario Aucelli e Angelo Siciliano. Il termine eros, introdotto nelle lingue moderne da Sigmund Freud, viene dalle parole greche éros ed érotos, che significano rispettivamente amore e istinto sessuale. Eros sta per amore sessuale, che ha indiscutibili riflessi psichici sulla vita delle persone. Sempre presso i greci, Eros era il dio della passione amorosa. Non noto all’epoca di Omero come divinità personificata, fu introdotto da Esiodo come una delle potenze primigenie del cosmo, emerso con Gea e Tartaro dal Caos, e onnipotente su uomini e dei. Eros, inteso come principio generatore, fu il frutto di elaborazioni da parte di filosofi e orfici, seguaci costoro dei riti misterici.
Nella poesia classica Eros divenne il giovinetto nudo dalle ali d’oro armato di arco e frecce, compagno di Afrodite, dea dell’amore, e trafiggeva il cuore degli uomini con i suoi dardi infiammandoli di passione. Più tardi fu rappresentato come putto, angioletto nudo o Amorino, e lo si trova dipinto a Pompei, nella casa dei Vetti, e poi, col Cristianesimo, nelle chiese e successivamente nelle volte affrescate dei palazzi a partire dal Rinascimento.
La parola eros sta per pulsione di vita, in contrapposizione a Thánatos, che, sempre dal greco, significa pulsione autodistruttiva di morte. Quindi, se eros è all’origine della vita terrena, Thánatos segna la fine di essa.
Chiaramente i contadini irpini, come tutti gli altri contadini, non sapevano nulla di queste dotte disquisizioni e relative implicazioni sull’amore. Essi parlavano dell’amore e delle tresche amorose, così come mangiavano. E poiché mangiavano poco e male, parlavano pure male, ma era il loro gergo e si capivano. In sostanza si comportavano come se vivessero in un mondo, che nessuna influenza aveva subito dalla cultura classica, o addirittura in un’epoca agropastorale arcaica di tipo preclassico. Alludevano e spettegolavano alimentando il circuito erotico dell’immaginario collettivo. Quelli con più spiccate capacità affabulatorie erano in grado di raccontare cunti erotici, ascoltati in precedenza da altri affabulatori oppure elaborati autonomamente. In una società patriarcale, in cui la morte era onnipresente, parlare di sesso era un diversivo piacevole, perché allontanava o rimuoveva le cupe atmosfere paesane e familiari, collegate al lutto e alla sua gestione.
Si parlava di “cose” erotiche durante i lavori nei campi, affinché si avvertisse meno la fatica e si avesse la sensazione dello scorrere veloce del tempo per arrivare a sera, o quando si era dal barbiere, il cui salone era il luogo di ritrovo esclusivo dei maschi. Qui i soldati, tornati dalla guerra o venuti in licenza, si gloriavano delle proprie avventure con le ragazze di città, sempre inventate, o con le mercenarie del sesso nei casini. In questo caso, forse, i racconti erano più attendibili. E poi tutti i barbieri, all’inizio dell’anno nuovo, avevano la consuetudine di distribuire ai propri clienti dei calendarietti a forma di libretto, odorosi di cipria, sui cui foglietti, tenuti insieme da un cordoncino di seta, erano riprodotti i volti delle dive sorridenti più famose del cinema.
Era un vero piacere, quasi una rivalsa sociale, da parte dei contadini, coinvolgere in tresche erotico-amorose, anche sulla base di semplici illazioni, il ceto nobiliare, i borghesi, i frati e i preti.
Ma i racconti erotici non risparmiavano neanche i miti. Così si raccontava che una notte, più janare si erano introdotte furtivamente in un pagliaro, in cui dormiva un pastore da solo, alla fine di una faticosa giornata di lavoro. Dopo aver tormentato ben bene quel poveretto per diverse ore, prima dell’alba si erano involate lasciandolo in uno stato pietoso. Ma prima gli avevano urinato in giro sulle lenzuola e poi legato il suo pene con dello spago, come un capocollo, con un capo del filo attaccato a un piede del letto. Relativamente all’intrusione di qualche janara singola, sempre con l’intento di molestare qualche uomo che riposava a letto da solo, si narrava che la prima volta le andava bene, ma poi successivamente era attesa. Così, una volta introdottasi nella camera da letto ed essersi posizionata a cavalcioni sull’uomo, che stavolta dormiva solo in apparenza, era afferrata per i capelli e, dopo un rituale consistente in uno scambio di frasi in codice che l’uomo era preparato a risolvere a proprio vantaggio, la loro situazione s’invertiva. La janara, da molestatrice, non solo passava nella posizione di molestata, ma era pure dileggiata e abusata sessualmente. Anche il sabba era oggetto di elaborazione erotica e, con riferimento a un dato punto del territorio, indicato come “L’uócchji di lu diàvulu”, la fantasia di qualche anziano affabulatore si sbizzarriva nel narrare la scena della monta delle janare, tra l’altro donne belle e giovani, accorse anche da luoghi lontani, da parte di un pastore travestitosi da diavolo col vello di un suo becco.
Quando i maschi erano in gruppo, si facevano apprezzamenti sulle fattezze delle ragazze e sulla procacità delle signore, e il gergo adoperato era salace. Linguaggio differente, invece, si adoperava quando si era a lavorare maschi e femmine insieme nei campi. In questo caso i maschi erano meno sfacciati e il linguaggio si ammorbidiva diventando però molto allusivo.
Bande di ragazzotti si davano talvolta appuntamento in luoghi appartati, fuori dall’abitato, e lì tiravano fuori il pisello e facevano il confronto a chi ce l’avesse più lungo o più grosso. Si racconta che una volta, mentre una di quelle bande era intenta in questo tipo di sfida-comparazione, si trovò a passare nei paraggi un ciucaio col suo asino, che godeva fama in paese di essere un superdotato. Costui, afferrato al volo il senso di ciò che lì si stava combinando, a suo modo volle umiliare quegli ardimentosi ed esclamò: «Ma cche ita fa cu ‘ssu cippitiéddru! (Ma cosa volete combinare con quel bastoncino!)». Così dicendo, spalancò la patta dei pantaloni e mostrò, in tutta la sua strapotenza, lu sajittóne, il saettone. Quella ragazzaglia, presa alla sprovvista, restò a bocca aperta e per oltre settanta anni ha tramandato l’accaduto.
I racconti, cunti, gli aneddoti, le filastrocche e i detti erotici della civiltà contadina fanno sempre riferimento all’amore sensuale e quindi al sesso, e rappresentano le varianti con cui si esternava l’erotismo popolare. Anche se il linguaggio è licenzioso, eccitante o pruriginoso, l’obiettivo era il piacere di trattare argomenti che, in un mondo in cui i costumi erano castigati e il sesso femminile difficilmente raggiungibile se non si era sposati, oltre al piacere davano, soprattutto agli aitanti giovanotti, una sensazione di emancipazione e l’agognato accoglimento nel mondo degli adulti, in cui queste cose avevano una normale circolazione. Insomma, per costoro, si trattava di una vera e propria iniziazione al sesso, seppure solo in via teorica.
L’amore, come sentimento puro e autentico, che pure non mancava nel mondo contadino, anche se i matrimoni si combinavano tra le famiglie e, talvolta, si doveva ricorrere al sensale prezzolato, lu zanzànu, per trovare moglie o marito nei paesi limitrofi, solo raramente traspare dal materiale etnico raccolto, perché anche nel mondo del padre-padrone ciò che sollazzava, in materia di sesso, era il proibito, l’irraggiungibile, il comportamento che infrangeva le regole, il piccante, il fatto erotico inventato di sana pianta, che magari affondava le radici nella maldicenza, avente come oggetto fatti riferiti a persone realmente esistenti. Talvolta, dei cunti erotici, grazie alla libera circolazione della manodopera come era per i braccianti nel passato, spesso ingaggiati anche in paesi lontani dal proprio per la semina e la mietitura, facevano il giro del territorio provinciale, regionale o extraregionale ed erano adattati a persone esistenti realmente nei diversi paesi. Insomma si trattava di “gossip” ante litteram, a sfondo sessuale, che venivano diffusi per fatti simili, ma relativi a realtà anche molto distanti tra loro.
Esiste una vasta letteratura erotica a livello nazionale e internazionale, e anche le arti visive da sempre hanno alimentato questo filone della fantasia creativa.
Cosa diversa dall’erotismo arcaico è la pornografia, che si è affermata da diversi decenni a livello mondiale, soprattutto per finalità commerciali e di profitto. Essa trasforma il linguaggio e le immagini erotiche in spettacolo osceno e volgare, in cui assumono parte preponderante la morbosità, il voyeurismo, il corpo nudo ridotto a oggetto di esibizione e l’atto sessuale è ripreso e divulgato, grazie alla recita di pornodive con i seni rifatti e “stalloni” a pagamento.
Devo precisare che, prima di avventurarmi in questo argomento, ho chiesto ad Aniello Russo, ricercatore e divulgatore della cultura orale irpina, se esista in Irpinia una bibliografia a riguardo del nostro erotismo popolare. Ricevuta una risposta negativa, mi sono fatto l’idea che, con tutte le cautele del caso, a meno di conterranei che si siano occupati o si occupino di questo argomento e rimasti finora ignoti, allo stato attuale a trattarlo in modo approfondito siamo o saremmo solo in tre. Ognuno di noi ha sviluppato un modo autonomo e differente di approcciare l’erotismo popolare arcaico, senza spirito imitativo e neanche competitivo. Tre modi diversi, ma sorprendentemente complementari tra loro, i cui risultati dimostrano come un argomento così particolare e non secondario della vita delle piccole etnie, più o meno segreto, scabroso e non alieno da tabù, possa essere fatto oggetto di ricerca sul territorio, trascritto e rielaborato con fini divulgativi. Così, uno spaccato della civiltà contadina, che non nasce da documentazione scritta, ma direttamente dalla tradizione orale, dove i cunti passavano da bocca a orecchio, si materializza e torna tra noi grazie alla scrittura, e ci restituisce una sintesi, che si fa memoria del vissuto quotidiano dei nostri avi e del loro immaginario collettivo sulle pulsioni amorose.
La ricerca di Aniello Russo in Irpinia
Aniello Russo, da oltre un ventennio, porta avanti una meticolosa e articolata ricerca ad ampio raggio sulla cultura e sulla narrativa orali in Irpinia. Ha messo in piedi una sorta di osservatorio sul territorio provinciale e ha coltivato rapporti con referenti e informatori nei vari paesi. Ha creato un suo personale archivio di canti, fiabe, racconti, filastrocche e blasoni etnici, e uno degli esiti del suo lavoro potrebbe essere quello di approfondire la distribuzione sul territorio di racconti, personaggi e miti, con varianti e similitudini, e consentire anche una sorta di comparazione tra i comportamenti degli appartenenti alle varie etnie paesane.
La sua ricerca, fatta con l’ausilio del registratore, alimenta in seconda battuta il sapere scritto. Quindi, la parola scritta consente alla cultura orale di assumere nuova vita e forma, attraverso la lingua colta, ed evita che essa sparisca per sempre senza lasciare traccia. In questo modo si materializza come un tassello imprescindibile e ineludibile di quel vasto mosaico della cultura orale del nostro Mezzogiorno mediterraneo.
Aniello Russo ha pubblicato una grammatica del dialetto irpino, diversi libri di fiabe, racconti, filastrocche, canti e racconti religiosi, e ha collaborato a una raccolta nazionale di fiabe con l’Einaudi. Partecipa a convegni, collabora coi giornali, tiene conferenze e presenta al pubblico le opere di autori e ricercatori che si muovono in ambito etnografico. Collabora con le scuole, dove è stato titolare della cattedra di Materie letterarie di latino e greco nei licei classici, rimarcando con gli studenti l’importanza che ha, ai fini del recupero di una propria identità etnico-territoriale, in un mondo sempre più globalizzato, la conoscenza dell’eredità culturale della nostra civiltà contadina, che potrebbe essere illuminante anche per certi comportamenti attuali.
Grazie alla sua intensa attività di ricerca e alla sua opera divulgativa, in questo mondo che si autoalimenta di rinnovate ondate consumistiche e mode effimere, si può guardare avanti con un certo ottimismo: forse non tutto è perduto dell’ormai surclassata e defunta civiltà contadina.
Ha pubblicato in dicembre 2007, per Sigmalibri del Gruppo Editoriale Esselibri – Simone di Casoria (NA), un libro di racconti erotici di 302 pagine, Il seme del sole – Cento e un racconto erotico della tradizione popolare. In un certo senso esso è la degna e matura prosecuzione di un lavoro analogo, Il Novellino, di 158 pagine, che lui diede alle stampe nel 1992 con l’editore Tullio Pironti di Napoli.
La ricerca di Aniello Russo, avviata negli anni Ottanta del Novecento, ha tenuto sempre nel dovuto conto l’erotismo popolare. E si può dire che, come l’eros è l’energia vitale dell’esistenza individuale, così i racconti erotici sono la parte più pregnante e vitale della tradizione orale di una comunità. La differenza è che, per quanto concerne la comunità, questa pulsione vitale assume valore di un’eco collettiva, quasi un metronomo sociale che scandisce non solo i tempi degli intrecci erotico-amorosi, ma anche quelli della morale tradizionale a cui erano ancorati gli usi e costumi della gente.
Aniello Russo prima ha scorrazzato per il territorio per raccogliere i racconti erotici e poi ha proceduto a una loro fedele trascrizione. In un momento successivo li ha tradotti in lingua. Ed è in questa fase che, da scarni e circostanziati “reperti” etnografici che ricordano talvolta le favole di Esopo e Fedro, essi sono diventati prodotto letterario, elegante nella forma e piacevole nel contenuto, che, seppure opportunamente dilatato per conferire all’opera una degna dimensione editoriale, non sono andati annacquati lo spirito di autenticità e la pregnanza propri della matrice etnica di riferimento.
Queste due pubblicazioni riportano entrambe, con meticolosa puntualità, l’indicazione delle fonti, le aree di diffusione e le varianti riscontrate sul territorio oggetto d’indagine.
La prima cosa che sorprende e incuriosisce è in che modo un contesto arretrato, che sembrerebbe conservare ancora lontane radici medievali, qual è quello dell’Irpinia austera e arcaica, abbia potuto accumulare e tramandare tutto un universo erotico insospettato, nonostante la messa al bando, da parte delle classi dominanti, di argomenti come il sesso e l’erotismo con l’obiettivo di indurre la sessuofobia nella gente. L’altro aspetto è che indubbiamente gli intrecci erotici hanno creato contatti e interscambi tra classe colta e classi subalterne.
Dai racconti erotici di Russo, che non hanno valenza pedagogica, ma filologica certamente sì, si evince un’ampia varietà tematica, come la scoperta del sesso, la seduzione, l’avventura, l’adulterio, l’adescamento e lo jus primae noctis, prerogativa della classe nobiliare. Tutti temi giocati abilmente grazie a colpi di scena, espedienti, trovate singolari, allusioni e metafore.
Spesso frati e preti, che ufficialmente fanno repressione del sesso altrui, diventano seduttori facendosi travolgere dalla lussuria con donne sposate.
Trattandosi di racconti popolari, gli atti sessuali non sono descritti nei dettagli come nella letteratura erotica colta. Anzi, l’ignoranza sul sesso, da parte di qualche soggetto implicato nel tessuto nella narrazione, crea situazioni paradossali e umoristiche. E proprio l’umorismo, che inevitabilmente induce al riso, non è solo la peculiarità di questi racconti, ma anche un connotato più o meno comune a tutto il materiale erotico popolare dell’Irpinia, soprattutto quando la finalità è il divertimento o la ridicolizzazione di certi personaggi in vista, che vengono presi di mira.
La lettura dei racconti di Aniello Russo potrebbe fornire tanti spunti di riflessione su un materiale, che in passato non ha sicuramente goduto del favore dei ricercatori del folklore.
Gli “Aneddoti osé” di Mario Aucelli
Se Mario Aucelli, insegnante in pensione, che ha collaborato per 50 anni come giornalista con quotidiani e riviste campani, non si fosse messo in testa di scrivere un libro corposo di memorie su Montecalvo Irpino, ancora inedito, probabilmente non avrebbe fatto l’incontro “ravvicinato” con la cultura orale. Il fatto di aver deciso di censire i mestieri scomparsi, di citare gli oggetti d’uso quotidiano e quelli adoperati nell’artigianato e nell’agricoltura, di cui s’è persa memoria, e di compilare un ristretto glossario in dialetto arcaico, lo ha indotto a calarsi in quel mondo ormai scomparso, ma in cui lui è sempre vissuto senza darvi importanza, perché tanto era sempre lì. Fino a che non si è reso conto che quel mondo non c’era più. Mi ha interpellato per qualche consiglio e io con piacere l’ho “immerso” nel mondo arcaico dei nostri avi, da cui sono personalmente “riemerso” dopo una ricerca ultraventennale. Così ha potuto scoprire nell’età matura la ricchezza, la varietà e la complessità della cultura orale. Personalmente l’ho incoraggiato, stimolandone la curiosità e ora è un estimatore attento di quel patrimonio ereditato dalla civiltà contadina, che in parte s’è trasformato e in parte è ormai sparito.
A Mario Aucelli, come s’usa dire, l’appetito è venuto mangiando. E così tra aneddoti, detti e modi di dire, che ha raccolto da vari informatori, si è imbattuto nell’erotismo paesano e, seppure con qualche iniziale perplessità, ha cominciato a registrarlo. In breve tempo ha messo insieme circa una trentina di testi erotici, attinenti a fatti realmente accaduti in paese, ma omettendo ovviamente i nomi delle persone implicate, che ha chiamato Aneddoti osé. Poi m’ha chiesto la disponibilità a illustrarli con dei disegni da creare appositamente. S’è accorto anche lui che l’erotismo, raccontato con disinvoltura non solo dagli adulti disinibiti, è in realtà un collante quotidiano, molto importante per una piccola comunità.
Questi testi sono in lingua, infiorati qui e là con qualche termine e dei modi di dire in dialetto. Si presentano alquanto sintetici e ricalcano fedelmente la tradizione narrativa locale. Di fatto essi costituiscono la fase intermedia tra la registrazione etnica dialettale e la rielaborazione letteraria di ampio respiro. Il loro pregio è che si tratta di una memoria fedele dell’erotismo popolare montecalvese.
L’archivio della civiltà agropastorale con i testi erotici in dialetto di Angelo Siciliano
Innanzitutto, mi scuso con i lettori di parlare di me stesso, di quel che ho fatto e sto portando avanti, in oltre venti anni di ricerca, sul territorio del mio paese, Montecalvo Irpino. Ma devo aggiungere che se non fossi io a parlarne, altri, che pure presumono di avere titolo per farlo, non solo se ne astengono, ma ignorano la mia esistenza di ricercatore e creativo etnografico, quando pubblicano libri sull’Irpinia. Ed è pure probabile che ritengano che il passato ormai è passato, se non addirittura sepolto, col tramonto della civiltà contadina.
Se Aniello Russo, vivendo in Irpinia, ha potuto battere in lungo e in largo il territorio in questi anni, e ha raccolto “reperti” e registrato centinaia di canti arcaici, io ho circoscritto la mia ricerca alla civiltà agropastorale del mio paese, ponendolo sotto una lente di ingrandimento. E a fare questa scelta fui indotto dalla mia condizione di emigrato a Trento, città tra l’altro in cui vivo bene, che mi consentiva solo qualche settimana l’anno di ricerca sul campo. Il mio è stato un viaggio a ritroso nel mondo arcaico contadino in cui sono nato, seguendo due percorsi paralleli e distinti: uno per la ricerca della cultura orale e un altro per la riscrittura. Il primo di essi ha comportato una ricerca meticolosa sul territorio per registrare e trascrivere fedelmente la cultura orale, vale a dire tutto il materiale folklorico che era possibile cogliere dalla viva voce degli informatori, gli anziani dialettofoni, prima che scomparissero. Il secondo percorso è quello della riscrittura, sempre nel linguaggio degli informatori, di quanto non fosse compiutamente testimoniabile, quindi non registrabile, cioè il frammentario, il sommerso o il disperso della civiltà contadina. E sono stato sorretto in questo dalla mia creatività poetica e artistica.
Ho messo insieme l’archivio completo della cultura agropastorale del mio paese, di cui solo un libro è stato finora pubblicato, Lo zio d’America, presso l’editore Menna di Avellino nel 1988.
Il materiale raccolto grazie agli informatori comprende quanto segue: un eccezionale poema ottocentesco cantato, Angelica, di 107 quartine, unico dell’Irpinia e ultimo trascritto in Italia; oltre cento canti montecalvesi classificati in una decina di gruppi; molte preghiere, qualcuna è medievale; tanti cunti antichi, molti sui santi, presentati con i difetti tipici degli umani; detti, filastrocche, indovinelli, maledizioni e aneddoti; toponimi e soprannomi; il glossario montecalvese con oltre 8.000 termini raccolti, di cui 40 sono parole inglesi dialettizzate (ad es.: li rrélli, per indicare i binari, da rail way, ferrovia; affinzàni, recintare con rete metallica, da fence, recinto, steccato; il soprannome Ariòp, affibbiato ad un paesano stupido e sfaticato, cacciato dall’America, da to hurry up, lavorare, sbrigarsi, star su).
Il materiale che ho prodotto autonomamente, nello stesso linguaggio degli informatori, comprende i seguenti testi: oltre trecento Confessioni degli antenati, con racconti del proprio vissuto in un contesto presepiale-teatrale; cinque lunghi testi con sabba, janare, lupi mannari e folletti; oltre un centinaio di testi erotici, con un’atmosfera talvolta esilarante; poesie in dialetto.
Si tratta di materiale per oltre 25.000 versi, con traduzione in lingua a fronte, con cui si può pubblicare una decina di libri. E la grafia fonetica che ho messo a punto, mi dà l’illusione che la parlata vernacolare degli avi si possa facilmente riprodurre a livello fonico.
Non ho trascurato di elaborare, in questi ultimi anni, molti saggi brevi su singoli temi riguardanti la nostra cultura etnica, che sono stati divulgati da giornali e riviste, oltre che dal mio sito.
E vengo all’erotismo popolare, che ha una parte importante in questo mio archivio. Esso comprende detti, filastrocche, un’ampia e curiosa varietà lessicale erotica, li ccanzóni cacciàti, alcuni cunti erotici e i testi poetici erotici da me creati autonomamente. Un materiale ricco e variegato, che attesta quanti modi e quale varietà lessicale avessero elaborato i nostri avi per rappresentare il loro panorama erotico.
Li ccanzóni cacciàti a Montecalvo – ne ho registrato negli anni alcune decine –, erano canti pettegoli aventi per oggetto dispetti politici, fughe amorose, tresche, tradimenti e corna, che le donne inventavano e cantavano, con nomi e soprannomi delle persone coinvolte, durante i lavori nei campi. Si tramandavano per decenni da bocca a orecchio e chi ne era vittima restava segnato per sempre nella comunità. Per qualche canto si è appurato che i fatti erano basati su semplici sospetti o pettegolezzi senza fondamento di verità e, in questi casi, per le vittime prese di mira il danno subito era doppio. Analizzando i testi di questi canti, i nostri avi fanno la figura dei puritani. Un mondo lontano anni luce da noi. Eppure, come invenzione di nuovi canti, esso è sparito solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Da li ccanzóni cacciati, ma soprattutto da alcuni canti sacri da me raccolti e aventi per oggetto delle tresche amorose, si desume che i nostri avi non solo erano dei moralisti, ma anche un po’ bacchettoni. Poiché da alcuni decenni è cambiata la morale e, giustamente, si è venuta affermando la privacy delle persone, non sarebbero più consentite queste illazioni “canore”, che assumevano talvolta il tono dell’ingiuria o della calunnia gratuita verso qualche compaesano.
Esiste poi l’erotismo dei canti della tarantella montecalvese. Infatti, ho raccolto cinque testi cantati sull’aria di questa danza arcaica, caratterizzati tutti da un forte connotato erotico-sessuale, in cui sono le donne, con comportamento “sfacciato”, a stuzzicare e a sfidare i giovani maschi.
Se i racconti erotici che ho raccolto sono del tutto simili agli Aneddoti osé di Mario Aucelli, poiché riguardano la stessa area di ricerca, cosa ben diversa rappresentano i testi erotici che ho creato autonomamente. Sono oltre un centinaio e, sempre in dialetto irpino arcaico, sintetizzano il clima e il linguaggio dell’epoca dei pecorai, dei ciucai, dei boari e dei garzoni di masseria, figure emblematiche della civiltà agropastorale spazzate via dai cambiamenti epocali nella seconda metà del Novecento. Grandi affabulatori, sapevano inventare e raccontare fatti e scene erotiche con linguaggio colorito e piccante, infarcito di maliparóli, sconcezze, che la morale comune del passato non accettava. E invece, oggi, esse sono ricorrenti nel linguaggio dei giovani e non solo. Aleggia talvolta in questi testi un che di esilarante, oltre che di umoristico. Non si pongono alcun messaggio morale. Per la dovizia dei particolari erotici, essi potrebbero essere accostati in qualche misura alla letteratura colta, ma anche a far ricercare qualche parallelo con la letteratura italiana delle origini, che potrebbe essere, ad esempio, quella della scuola siciliana.
Quando si pubblicano libri con argomenti culturali irpini, di solito li si illustra con immagini – disegni, incisioni e dipinti – che riguardano altre realtà. Ritenendo personalmente questa consuetudine non solo errata, ma anche furviante, ho impiegato molto del mio tempo a creare disegni e dipinti etnici calati nel contesto irpino, e non ho trascurato, in questo tipo di produzione, un tema importante come l’erotismo.
Concludo dicendo che se il mio lavoro iconografico è una sorta di biografia etnica per immagini, il materiale scritto costituisce una biografia collettiva vernacolare, che può rivivere attraverso la lettura se si è armati di curiosità e pazienza. I “reperti” etnografici, attraverso la riscrittura, permangono nella loro epicità ottocentesca e anche la relativa traduzione in lingua cerca di conservare tale peculiarità.
(Questo testo, scritto per il Corriere-quotidiano dell’Irpinia, è fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).
Zell, 8 maggio 2008 Angelo Siciliano