PREFAZIONE

di Mario Sorrentino

Sino a quando non ho letto queste poesie di Siciliano, allorché volevo rievocare a me stesso la nostra comune zona d’origine, ricorrevo, ma tenendomela per me, all’espressione « Terra del silenzio ». E quest’espressione mi ripetevo alcune volte come fosse un nome, mentre mi sforzavo di restringere in una sola immagine il paese dell’infanzia e della prima giovinezza. Non so: un volto di anziana ‘femmena’ con le labbra ostinatamente strette su qualche vecchio dolore o rancore; una serie di schiene curve di vecchi contadini seduti con il culo sporto nel vuoto sui ‘ferri’ della nostra piazza (ma sono queste immagini del passato, poiché ora i vecchi se ne stanno davanti a qualche bar a tentare di ripetere vecchie parole ‘nvidiose’, mentre un ‘juke box’ strepita a tutto volume).

Terra del silenzio perché tale era per me l’Irpinia e tale credo fosse anche per gli altri. Infatti, non vi è stata da noi una tradizione letteraria scritta e i nostri ‘cunti’, le lamentazioni funebri, gli stornelli e le altre poche cose trasmesse oralmente di generazione in generazione, da bocca a orecchio, segnavano sui nostri sentieri d’argilla come tracce di lumaca, sempre rinovantisi, sia pure lentamente, ma ogni tanto inevitabilmente secche. E quindi riprendevano, brillanti ed umide, raccoglievano nuove impurità, pagliuzze e polvere, per via.

Che io sappia, tutta la nostra area culturale irpina, allorché ha contribuito con propri, scarsi apporti alla storia letteraria nazionale (Pietro Paolo Parzanese e qualche altro, ed escludendo le grandi figure che appartengono all’intero paese, come De Sanctis), l’ha sempre fatto abbandonando il dialetto. E quello seccava a mano a mano come traccia di chiocciola. E chi, cominciando dalle vicende della Prima Italia, cioè da prima della romanizzazione, giungeva alla nostra epoca postrisorgimentale (che ci ha visti entrare nella storia contemporanea come italiani) e poi ai nostri giorni non esaltanti, per ricercare qualcosa della nostra cultura etnica, non aveva a raccogliere se non frammenti, lacerti di citazioni nel contesto di altre lingue, ma pure bastevoli a far intendere che appartenevano a una ben delimitata varietà linguistica con un suo preciso svolgimento prima accanto al latino, poi al toscano ed ora all’italiano comune. Ed anche se si dedicava ad altre cose, come l’archeologia, l’etnografia, la favolistica, etc., doveva affidarsi alle testimonianze orali e a pochi reperti dispersi dall’incuria e più su del primo anteguerra di questo secolo, non riusciva a risalire. In quelle tracce di lumaca quante impurità!

Ma leggendo Angelo Siciliano, per me (sia pure per me montecalvese ogni tanto desideroso che il mondo si racchiuda sul nostro altopiano) è stato come assistere a una rivoluzione copernicana. Per la prima volta la nostra tradizione assume la forma scritta. Me la vedo intarsiata in versi che ‘parlano’ (v. oltre) e a mano a mano che li leggo debbo recitarmeli a mezza voce, per credere che esistano davvero.

Un tentativo di analisi prosodica

Il mio primo disaccordo con Angelo è costituito dal fatto che parla anche di cose ‘di fòre’ (fuori). Avrei preferito che si fosse scordato del mondo dell’emigrazione o che, almeno, avesse anteposto alle poesie che ne parlano quelle d’argomento montecalvese. Poiché è in queste che io scopro la vena buona, quella lucente che appaga i cercatori.

Dividerei la raccolta in tre sezioni, anche se l’autore, giustamente, ne ha fatto un raggruppamento diverso. Nella prima, che chiamerei di rievocazione elegiaca, vanno tutte le poesie che rielaborano materiali tradizionali (con una fedeltà, vedremo, insospettabile a tutta prima). La matrice a cui si rifanno tutte, credo sia’ Cantu dulurosu’. Più avanti ne tento l’analisi metrico- filologica. Ma comprende anche ‘Malisintenzie’, ‘Li stelli’, Munitore’, ‘Abbasci’ a li Fuossi’, ‘Rimedij antichi’, ‘Ditti an tichi’ ed altre (forse anche ‘Lu ziju di l’America’), tutti componenti che di quella matrice conservano un’eco.

La seconda la chiamerei lirica. E credo di capire che si tratti di poesie pensate in lingua italiana e poi rivestite di dia letto. Questo forse è un altro disaccordo con Angelo .Ho motivo di supporre che la lingua in cui ormai pensa l’autore, e in cui quindi rappresenta per sé (nel foro interiore) i suoi sentimenti, sia purtroppo l’italiano. Purtroppo ed inevitabilmente per lui, per me e per tutti, amen.

La terza è costituita dalle poesie civili. Motivi politici, quadri metaforicamente schematizzati di contrapposizione di classe, vaga e ‘ingenua’ protesta (‘Lu Sud nunn eja muortu’, ‘Munticalivu’, ‘Duj cumpagni ‘).

La prima sezione è quella buona, ripeto. Non me ne vorrà Angelo, né i lettori che la pensassero diversamente, se la preferisco. Ritengo essa soltanto responsabile della rivoluzione copernicana di cui ho detto all’inizio.

Dicevo prima, che i versi di Siciliano parlano invece di cantare. E infatti scopriamo subito che i ritorni a capo del verso (la battuta prosodica maggiore in queste poesie) fanno perno sulle pause logico-sintattiche delimitanti complementi e proposizioni.

Consideriamo ‘Nu cuntu’ e ‘Cantu dulurosu’. Nella prima poesia, fuorché per gli ‘enjambements’ alla fine dei versi 6, 20, 22, 30 e 33; e nella seconda in nessun verso (se non in ‘raccummannava / la bunanima di mamma’ che è da considerare più che altro iperbato) non ve ne sono altri. E vedremo che non è un caso, se in ‘Cantu dulurosu’ (aderentissimo alla tradizione) ‘enjambements’ non ve ne siano affatto.

Abbiamo scoperto così (una verifica veloce nelle altre poesie della prima sezione ce ne ha dato conferma) che si tratta di narrazioni in prosa ritmica scandite da pause logico-sintatti che (paralleli illustri sono la prosodia epica germanica — ma quella è allitterativa — e russa — non allitterativa, quindi maggiormente somigliante).

‘Eppure hanno un ritmo facilmente percepibile!’ mi sento obiettare. E, infatti, hanno un ritmo. Un ritmo solenne, cantilenato, ma non legato ad alcuna scansione prosodica quantitativa o di ripresa fonetica (rima, assonanza, consonanza, allitte razione, rima interna, etc.). Fatti prosodici di diversa tradizione, certo, ve ne sono. Ad esempio, rime quali cullina/cucina; consonanze: pizzava/puzzij ava, pinzava/pinzione; assonanze: canu/ sangu, mamma/stanza; anafore: taglia, taglia, para, para; allitterazioni (rarissime): sausicchj i/sarole, appisu/pertica.

La seconda eco importante è data dalla quantità sillabica (l’alternarsi regolare e monotono di sillabe lunghe e corte).

Ho tentato di raffigurare una qualche griglia regolare per raffrontarla a quella del saturnio e agli altri metri latini posteriori. Ma il tentativo non ha sortito alcun risultato certo. Bisogna ipotizzare un calco dell’omiletica chiesastica? Ma nelle nostre comunità quali recitazioni solenni della Chiesa incidevano di più? L’Agonia di Cristo? Si aprirebbero prospettive troppo ambiziose e forse labili per la nostra tradizione immiserita.

Ricercando somiglianze con i metri classici, ho infilzato quasi sempre giambi e trochei, ma più raramente dattili e anapesti. Ciò forse perché il nostro dialetto, come gli altri dell’area con sostrato osco, (in analogia con l’inglese, ad esempio) ha quasi la totalità dei termini lessicali ristretti a bisillabi. Infatti il trisillabo, a causa delle finali indistinte (-u, -i), della sincope, dell’apocope e delle altre riduzioni (le elisioni) è ridotto dalla pronuncia quasi sempre a bisillabo.

Accertato che abbiamo a che fare con prose ritmiche, riprendiamo ‘Cantu dulurosu’. Siciliano, naturalmente, ricrea la tradizione. Ma questa tradizione qual’è?

L’originale del lamento funebre è il seguente. Nel lamento per il figlio si alternano una narrazione in prosa ritmica e una ripresa in canto. Il canto intervalla le narrazioni e chiude sempre con un mezzo verso (la sua fine corrisponde con la cesura c altri versi del canto). Questo mezzo verso che rilancia la narrazione della lamentatrice è il solo elemento musicale ripreso da Siciliano.

Il nostro reperto:

Strofa narrativa « Oi Cuncetta mia, lu ssapivi ka m’era muortu figlimu? Ah, nunnulu ssapivi? Oi ka m’a muortu! Sine, sine! Lu vvide com’era bellu? Se ne ‘nnammuravene femmene! etc. (La narrazione può durare anche molto). Canto (introdotto di solito da una riflessione penosa) «Oi figliu miu // figliu miu oi com’agghia fane 1/ com’agghia fà oi ka si’ mmuortu // figliu miu. (Pausa). Figliu miu // (Nuova pausa più o meno lunga e ripresa narrativa suscitata di solito dall’arrivo di un’altra visita).

Chiedendo scusa per la digressione, ritorno a ‘Cantu dulurosu’. Non potevamo pretendere una registrazione etnografica da Siciliano. Ma provate a leggerlo intervallando mentalmente il ritornello tradizionale e scandendo i versi a due a due sulla unità da noi ricostruita (un pentametro). Rivive una musicalità che credevamo perduta! La trasposizione del canto nella strofa narrativa è stata indubbiamente un’invenzione felicissima.

Un «cuntu » ( per il modello v. anche quanto ho detto più sopra per la strofa narrativa del lamento funebre) che più chia ramente ci può far sentire il ritmo del recitativo (quasi che fossimo di nuovo bambini ai piedi di un novellatore o di una novellatrice del paese) è «Li ‘mboddre ». Ma altri ve ne sono e si distinguono facilmente per il fatto che tutti rievocano il tempo che fu, le persone e le attività scomparse: « Lu tisoru ‘mpussassatu »; «Li gghjanari »; « Li Mamuni » « Lu bastimen tu »; « Padruni e guarzuni »; « San Filici », etc. e quel vero e proprio travaso generazionale d’esperienza professionale che è in « Fave, ciciri e ffasuli »; « Lu cuntadinu» ed altre.

Ne « Li ‘mboddre» è accolta una leggenda cristiano-pagana legata ad un luogo ritenuto magico a causa del fenomeno geologico che vi si manifesta e degli eventi confusi che la vicinanza dei ruderi dell’Appia traiana evoca in chi vede la nostra storia nazionale antica come il primo di ogni accadimento, un azzera mento storico quasi confuso con la creazione. Perciò questo è quasi un mito cosmologico, starei per dire. Il taglio della testa, del resto è tipico dei miti della fertilità ed evoca la mietitura. Quindi questa leggenda assolve per quella di Montecalvo la funzione dei miti d’origine per le culture cosiddette ‘primitive’. E non a caso in questa versione raccolta da Siciliano figura lo stesso Cristo. Il ritmo di prosa narrativa lo si scopre se si eliminano le pause a capo di verso del 4, 7, 11, 13, 16, 18, 21 e 26 (su 32 versi dell’intero componimento). Vi sono infatti alla fine di questi versi degli ‘enjambements’ che sciolgono la prosodia. Qui siamo in una tradizione diversa da quella a cui s’ispirava « Cantu dulurosu » della parte cantata.

In « Padruni e guarzuni » (questa forse è l’unica poesia di materia civile che mi piaccia) è addirittura di respiro epico, per me. E vi si legge una lunghissima nostra storia. I rimandi anche alla letteratura in lingua scattano numerosi. Penso a D’Annunzio, a Scotellaro, a Silone. Il ritmo (stando ai contenuti) è solenne e un po’ (appena un po’) straziato. Tuttavia il tutto è diverso, gli attori hanno nomi comuni collettivi (meno quella zia Rosa che fa le veci della madre assente). Solenne e un po’ straziato per le immagini; ma svelto e allegro per il movimento prosodico (quasi un trottare). Molte anafore e spaziose pause a metà verso che scandiscono accenti insistiti.

Ma la tradizione non è fedele ripresa del vecchio? No. Per me tradizione vuoi dire ripresa di forme già morte per farle rivivere. Tradizione viene da ‘tradere’ (consegnare) e Siciliano ci consegna qualcosa che non svanirà, Qualcosa che è scritto. Qualcosa di cui potremo non vergognarci. Quanti di noi non hanno cercato di sbarazzarsi del nostro dialetto perché evocava ai nostri occhi gente povera, ignorante, incolta? E stenti e sacrifici?

Ma non perdevano qualcosa della nostra anima?

Uno ‘strologo’ del Trappeto un giorno mi disse: « A parlà come pidda loche v’arrobbunu l’anema ».

Detto però il profondo sentimento che il nostro dialetto m’ispira, non è che ritenga che esso possa assolvere quella funzione riservata ad una lingua nazionale ricca e sconvolgente- mente bella come l’italiano. Ormai la nostra gente, senza esclusioni, se n’è impadronita e da letteraria e scritta qual era diventata dopo essere stata raccolta sulle labbra del popolo dai grandi Trecentisti (e rimasta lingua orale soltanto in Toscana e negli ambiti sociali eminenti) ora è possibile sentirla anche sui nostri monti. Sia pure con parecchie ipercorrezioni fonetiche e sintattiche (la ‘ t’ in luogo della ‘d’ sentita come dialettale e il ‘se’ con il condizionale, poiché il congiuntivo è l’unico ad esistere in dialetto), interferenze e mimetismi in altre parlate (degli emigrati al rientro).

stato un bel riscatto per tutti. Si può dire che molti stec cati sono così caduti. Ma se tutti cominciamo a dire « supporter », « jogging »? A questo prezzo conviene parlare tutti la stessa lingua? Da lingua letteraria raffinatissima l’italiano rischia di diventare un gergo anglo-americo-italiano. Una separazione tra lingua scritta e lingua orale si sta producendo di nuovo. E si suddivide in varietà secondo aree etnico-geografiche e socio linguistiche. Recuperare il dialetto, in questo contesto storico e culturale, vuol dire raccogliere le perle secrète e lucidate da generazioni di padri e madri che hanno catturato frammenti di realtà scomparse, sentimenti, passioni, sogni raggrumandoli per sempre. Ora nelle pagine di Siciliano, cioè, e di tanti altri poeti e letterati che vengono espulsi proprio perché dialettofoni, dal l’editoria milanese (tanto per parlar chiaro), si sta provvedendo a raccoglierne qualcuna. Del resto già in passato è accaduto tante volte che letterati di buona formazione, scartate le rozze cose della plebe decaduta, le ricercassero e lucidassero queste perle. Le irripetibili storie (se non in quelle forme), le sentenze, i frammenti di saggezza, la giovinezza dei padri.

Siciliano ci dà qualcosa di questo patrimonio di famiglia. Leggiamolo a voce alta (non si presterebbe alla lettura ‘mentale’ a cui s’è ridotto l’uso della poesia in lingua, la quale perciò non regge più alla recitazione e non ha musicalità).

Viaggiando nel mondo di quell’altra lingua già illustre, chissà che il ricordo di certi bei suoni, l’icasticità di qualche immagine, la ‘pulitura’ di una sentenza non ci affiori in mente e non ci aiuti a preservare l’italiano da certi barbarismi inventati quotidianamente dai giornalisti e dai commentatori della tivù.

Bologna, ottobre 1987