L’ITALIA, DA TEMPO ORMAI, NON È PIÙ IL BEL PAESE
E IL MERIDIONE VA SEMPRE PEGGIO
Un dipinto e una poesia per Norberto Bobbio, coscienza critica
ancora viva della società italiana

A ripercorrere gli eventi sociali e politici di questi ultimi anni e la loro degradante evoluzione, pare che il nostro Paese abbia abbracciato la vocazione a rincorrere sempre di più il peggio. Una spirale continua, che si avvita in discesa e di cui non si percepisce la fine. Una situazione disperante per i giovani che s’affacciano per la prima volta nel mondo del lavoro. Per i ricercatori scientifici senza prospettive. Per la massa dei precari, con un futuro a dir poco incerto. Per i lavoratori di mezza età, che un lavoro lo avevano, ma hanno avuto la sfortuna di perderlo e la speranza di trovare una nuova occupazione è pressoché nulla.

Tutte problematiche che non toccano i privilegiati di questa società: politici in testa, di nuovo conio o di vecchio pelo; manager, che non pagano mai per i propri errori e abusi; imprenditori con la propensione all’evasione fiscale e all’accumulazione di fondi neri all’estero; professionisti e lobbisti col pallino del non rispetto delle regole; tutti quei carrieristi, nei vari ambiti sociali, il cui merito principale è l’affiliazione o la fedeltà supina al capo di turno.

La nostra collettività è costretta a fagocitare di tutto: crac finanziari spaventosi, con masse di risparmiatori gabbati; scandali giudiziari; appalti truccati ad alto livello; corruzione e peculato diffusi tra pubblico e privato, con implicazione di escort e mazzette o con la compravendita di case di lusso a prezzi irrisori; passaggi fasulli di proprietà di imprese con l’obiettivo principale di mollare i propri dipendenti, lasciandoli per mesi senza stipendi. Insomma, una realtà desolante che fa discutere e supporre una nuova Tangentopoli, e dire al direttore Paolo Mieli che questi scandali “possono far saltare il sistema come nel ‘92”.

E poi, quando queste cose si scoprono e finiscono col diventare di pubblico dominio, la colpa la si dà alle intercettazioni telefoniche e alla magistratura che, nell’esercizio delle proprie funzioni, le autorizza.

E, nonostante qualche impotente esecrazione, si approvano leggi ad personam, solo per evitare i processi in cui si è imputati. Si esibisce uno strapotere abnorme, con la scusa che è il consenso popolare a volerlo. E invece, il potere popolare si dovrebbe esercitare nei limiti del dettato costituzionale.

“Siamo uguali davanti alla Legge se lo Stato difende le proprie leggi e non soltanto gli uomini che lo rappresentano. La classe dirigente di un Paese democratico deve avere come obiettivo primario la sua integrità morale e politica” scriveva il meridionalista Guido Dorso (Avellino, 1892-1947), antifascista, nel suo saggio “La Rivoluzione Meridionale”, frutto delle riflessioni del periodo cruciale in cui, nel 1923, fu invitato da Piero Gobetti a collaborare con la propria rivista, “La rivoluzione liberale”. E sempre Dorso auspicava per il Meridione la nascita di una nuova classe dirigente, improntata a un severo rigore morale. Ma in quali condizioni sia il Sud è sotto gli occhi di tutti: dalla carenza cronica di lavoro ai problemi della sanità, dalla raccolta mai definitivamente risolta dei rifiuti al controllo capillare del territorio da parte della criminalità organizzata. Nessuna politica è riuscita nei decenni a sanare il divario col Nord e la “distanza” tende a divaricarsi. Il rischio è che tra 20-30 anni la “Questione meridionale” sia ancora aperta e irrisolta.

Si consumano faide interne ai partiti e litigiosità tra apparati istituzionali. Ma guai a toccare le poltrone! Era stato promesso ai quattro venti di ridurre il numero dei seggi parlamentari e quello delle province, per contenere i costi della politica. E invece, il numero delle province continua a crescere, per creare posti alle mezze figure e ai galoppini della politica!

Un quadro nazionale che la recessione economica mondiale, partita dagli USA nel 2008, sotto la tanto criticata presidenza repubblicana di George Dabliu Bush, con la bancarotta di diverse grandi società che operavano nel credito e nella finanza immobiliare, come la banca di investimenti Lehman Brothers, le società di mutui Fannie Mae, Freddie Mac e la società di assicurazioni AIG, ha solo aggravato.

“Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio” scriveva Pier Luigi Celli, direttore generale della Libera Università internazionale degli studi sociali, Luiss Guido Carli, ed ex direttore generale della Rai, nell’articolo-lettera al figlio, prossimo alla laurea, uscito sul quotidiano Repubblica del 30 novembre 2009, intitolato “Figlio mio, lascia questo Paese”, che ha fatto molto discutere, sia per il contenuto che per la posizione sociale dell’autore.

E’, dunque, cosa tremenda il contesto che ha indotto Celli a scrivere quella lettera. Un Paese, il nostro, con una storia importante e grandi maestri ormai alle spalle. Ma oggi la gerontocrazia non lascia chance alle nuove generazioni e sono i cattivi maestri a fare la differenza. In questa società, in cui si ipotizzava l’introduzione delle gabbie salariali per riequilibrare il costo della vita tra Nord e Sud, esiste da sempre un sistema di “gabbie sociali”. Da noi, un Barack Obama con le sue umili origini non avrebbe nessuna possibilità di arrivare a capo della Nazione, come è successo in America.

Già quaranta anni fa, molti di noi, che, in cerca di un’occupazione, lasciavano il Sud per il Nord, avvertivano uno stato di cose di questa fatta. Ma si sperava che con gli anni sarebbero maturati tempi migliori. Soprattutto per i nostri figli. Purtroppo, il dilagare del familismo amorale, lo scadimento dell’etica, le baronie ineluttabili, i crac finanziari degli impuniti, le corruzioni, le mafie, le connivenze e i riciclaggi a tutti i livelli e latitudini, spazzano via ogni speranza.

Quando si mise in moto la globalizzazione, ci rassicuravano che era un’opportunità. Che tutti saremmo stati meglio. E invece, sono aumentati i poveri. Molte imprese hanno chiuso i battenti. Altre sono in difficoltà. Altre ancora, incassati i contributi pubblici locali o comunitari, si sono delocalizzate. Ma sarebbe più proprio dire dileguate, lasciando moltitudini di lavoratori a spasso, alcuni dei quali, per dare visibilità ai gravi problemi personali e familiari, sono dovuti salire per protesta sui tetti dei capannoni aziendali. La globalizzazione ha favorito le economie dei paesi asiatici, le multinazionali e creato opportunità per le mafie nostrane, che sono diventate internazionali e hanno colto l’opportunità di diventare più potenti col riciclaggio di capitali sporchi, investiti nei diversi continenti.

E la bolla finanziaria, causa della depressione economica in cui ci dimeniamo, non è detto che sia scongiurata per gli anni a venire.

L’Italia, da tempo ormai, non è più il Bel Paese (dal titolo del libro più famoso del noto geologo italiano, l’abate Antonio Stoppani, “Il Bel Paese” del 1786; ripreso a sua volta dal canto 146 del poeta Francesco Petrarca: il bel paese ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda et l’Alpe). Neanche per quanto concerne i suoi paesaggi e il territorio. E gli inverni piovosi non fanno che evidenziarne il dissesto idrogeologico, che autorità locali e nazionali, miopi e imprevidenti, hanno fatto sì che arrivasse al grave stato in cui si trova, con ripetute tragedie umane e insanabili disastri ambientali.

E, sempre in tema di territorio, grave è la situazione ambientale in alcune regioni, provocata dallo smaltimento criminale dei rifiuti dannosi per la salute da parte dell’ecomafia e da quelle industrie che le proprie scorie tossiche le interravano senza controlli, o le smaltivano nei fiumi o in mare.

 

Nell’inserto Tutto libri del quotidiano La Stampa del 27 febbraio 2010, Marco Revelli, nel suo articolo “Che cosa direbbe oggi Bobbio?”, cerca, attraverso il pensiero del filosofo, di dare delle risposte a quel che succede in questo Paese incivile, in cui dilagano corruzione, scandali e ogni tipo di disprezzo delle regole.

Nella Prima Repubblica, i politici implicati in atti di corruzione si dimettevano, perché trasparenza ed esercizio pubblico del potere erano valori ancora formalmente condivisi. E neanche chi ricopriva alte cariche istituzionali si permetteva di metterli in discussione. Oggi, vi sono parlamentari già condannati, che aspettano l’esito del terzo grado di giudizio per decidere che fare. E chi è preso “col lardo in tasca” pensa bene di non dimettersi. Alto è il rischio di ritrovarsi subito nelle patrie galere.

Di Bobbio resta memorabile l’articolo “La democrazia dell’applauso”, uscito su La Stampa del 16 maggio 1984, in cui lui, socialista e “coscienza critica della sinistra italiana”, attaccava il capo del Partito socialista, Bettino Craxi, per essersi fatto eleggere “per acclamazione” alla guida del Psi da un Congresso dominato con logica plebiscitaria. Vedeva in quel comportamento, che lui riteneva non democratico, la deriva personalistica della politica italiana, che si sarebbe coniugata con la mai sopita tentazione “carismatica” e il disprezzo delle regole, che tanti danni aveva prodotto in passato nel nostro Paese. In sostanza, il capo, legittimato dall’elezione per acclamazione, è deresponsabilizzato davanti ai suoi elettori e risponde solo a se stesso, per quella che ritiene la propria missione.

Fece scandalo, ed ebbe l’effetto d’una frustata, la sua dichiarazione “Mi vergogno d’essere italiano”, nel giugno del 1992, quando nella spaventosa strage di Capaci ad opera della mafia, diventata così potente da portare attacchi frontali alle istituzioni, persero la vita il giudice Falcone, la sua compagna e tutta la scorta.

Tangentopoli travolse, con gli scandali di corruzione, la nostra fragile democrazia e nel 1994 Bobbio scriveva che la nostra repubblica era finita nel disonore: non di fronte al Tribunale della Storia, come è normale che a volte possa succedere, ma davanti al tribunale degli uomini.

Ma ne ebbe anche per la Lega Nord e Umberto Bossi, nel settembre del 1996, quando alle sorgenti del Po, con delle ampolle d’acqua sollevate al cielo e officiando una cerimonia grottesca, Bossi ribadì la propria voglia di secessione della Padania. Bobbio, sbigottito e atterrito dalla pochezza culturale dei leghisti, espresse il proprio pensiero nell’articolo “Perché voglio restare italiano”, uscito sempre su La Stampa.

La Seconda Repubblica, nata dalle rovine della prima, prometteva di essere migliore. Bobbio, memore di quella in cui aveva creduto nel 1945, con i compagni del Partito d’azione, era semplicemente sconcertato. Nell’aprile del 2000, in un’intervista rilasciata a La stampa, parlava del ritorno prepotente e aggressivo di un’Italia incivile: la “sempiterna Italia dei furbi e dei servi”, la definiva, contro di cui la sua generazione aveva a lungo combattuto. E Silvio Berlusconi, emblema di quell’Italia avviata a una deriva populista, lui lo avversò da subito. Non per una questione politica o ideologica, ma per un fatto “di stile”. Lo indignavano il suo uso pubblicitario del “carisma”, la vocazione “cesaristica” (per Cossiga “il picconatore”, Berlusconi era il Napoleone della Brianza) e il giuramento sulla testa dei suoi figli, davanti a milioni di telespettatori, per dare peso e credibilità a una sua personale verità. Talvolta, sdegnato per certi suoi atteggiamenti, Bobbio era indotto ad accostarlo a un despota, non tanto per la persecuzione degli avversari o per i duri attacchi a magistrati, stampa e giornalisti, ma per l’impudicizia di svelare in pubblico ciò che si farebbe bene a tenere celato. E scrisse pure che se lo “scandalo” è consumato in alto, non è più tale per i comuni cittadini. E ancora: “La caratteristica dell’uomo tirannico è credere di potere tutto”.

Viene da domandarsi, se fosse ancora in vita, che direbbe oggi Bobbio, con un quadro politico italiano per nulla migliorato, anzi ancora più esacerbato, invelenito e imbarbarito? Una risposta la si può ricercare nella sua opera del 1990, “L’età dei diritti”, in cui fa l’elenco di tutti quei principi fondamentali che permettono a una moderna democrazia di svilupparsi in un clima di pace giusta e duratura: partecipazione collettiva e non coercitiva alle decisioni comunitarie; contrattazione tra le parti; allargamento del modello democratico a tutto il mondo; fratellanza fra gli uomini; rispetto degli avversari; alternanza al potere senza l’uso della violenza. Insomma, sono questi i fondamenti e le regole liberali del vivere civile in democrazia, che, anche se cattiva, è sempre preferibile ad una dittatura.

A questo punto è legittimo chiedersi come faccia ad andare avanti questo nostro Paese così disastrato. La risposta è che sono principalmente le famiglie a tenerlo in piedi, perché, al contrario di tanti politici, hanno il senso dello Stato. E sono soprattutto le imposte pagate da lavoratori dipendenti e pensionati a finanziarne le spese.

Essendo trascorso da poco il centenario della nascita di Norberto Bobbio (Torino, 1909-2004), ha avuto inizio al Carignano di Torino un ciclo di conferenze, “Lezioni Bobbio 2010”, in cui autorevoli relatori sviluppano i propri interventi tematici partendo dai titoli di alcune delle tante opere, che questo pensatore e politologo ci ha lasciato.

Per quel che mi riguarda, dopo aver creato una cartolina, “Tendenze sociali”, con quei valori, ideali e regole che paiono morti in questo Paese alla deriva, ho dedicato a Norberto Bobbio un dipinto del 2004, “Norberto Bobbio tra personaggi”, e la poesia “Fogne e tuberose”.

(Questo testo, scritto per il Corriere - quotidiano dell’Irpinia, è fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Zell, 16 marzo 2010                                                                                         Angelo Siciliano

 

 
            FOGNE E TUBEROSE*
 
A navigare i sogni
a volte vibra la leggiadria
ma la realtà è altro
e s’ammanta l’estetica bellezza
d’immorale bruttezza
che la smania di belle figure
genera tracotanze e brutte figure
e la bocca ci si riempie
di giustizia che fa ingiustizie
che soldi a fiumi e leggi ad hoc
assicurano l’impunità
e dimore istituzionali ai rei.
Si svia ogni norma morale
si dissolve ogni etica
e il cielo stellato su di noi.
Celebrate da tempo ormai
le esequie degli anticorpi
argini al male sociale
e i cervelli sfilano all’ammasso
della credulità elettorale
avidi a nutrirsi d’emulazione.
Il carro della storia s’impantana
per fogne inesplorate
che si premurano di spacciarci
tra certezze dissipate
e ipocrite armonie
per viali decorosi di ibischi
chincaglierie, garofani e tuberose.
 
Il filosofo Kant annotava:
“La legge morale alberga in me,
il cielo stellato è sopra di me”.
 
* A Noberto Bobbio
 
Zell, 23 febbraio 2010
Angelo Siciliano