Sul Croz dell’Altissimo.

Si parte in auto da Trento, alle sette e trenta di giovedì, 28 luglio 2005, diretti a Molveno, graziosa cittadina sul lago omonimo a nord della Paganella. Da lì ci avvieremo alla meta, che stavolta è il Croz dell’Altissimo, alto 2.339 metri, quasi nel cuore del Brenta.Questi sono luoghi che qualche montecalvese potrebbe aver conosciuto in passato direttamente o per sentito dire, essendo venuto qualche volta ad Andalo, a sciare sulle piste della Paganella, la montagna che si frappone tra il Brenta e Trento.C’è un sole caldo sulla città che pare di essere al Sud. Il fresco si spera di trovarlo in altura. Oggi i miei due cagnetti restano a casa. Non sono in castigo. Nei giorni passati si sono beccati due scaldate, prima in Val de l’Om, sotto il Castello dei Camosci, sempre nel Brenta, poi sul Becco di Filadonna, nella catena della Vigolana, propaggine del Lagorai. Pure stamattina è il mio

amico Ipo, siculo di Palermo, a fare da guida. Come da un decennio, col caldo o col freddo, a scorrazzare insieme per le montagne della regione. Non siamo rocciatori, ma diverse ferrate impegnative le abbiamo fatte in questi anni, e tante escursioni e ciaspolate sulla neve. Quelle di maggiore soddisfazione, in Val Venegia, fino alle Pale di San Martino. Parrà strano, ma lui conosce le montagne una per una, per nome e posizione, meglio di ciò che si porta in tasca. Abbiamo sempre carte geografiche con noi, per individuare e seguire i sentieri, comunque segnati e curati dalla SAT o dai gestori dei rifugi. Non come c’è capitato invece in Sicilia, l’anno scorso, sulle Madonie, su Pizzo Trigna, su monte Cuccio, su monte Grifone e sulla Pezzuta, dove abbiamo dovuto avanzare a naso, tra rovi e sterpaglie, contando sulla posizione del sole, sotto lo sguardo incuriosito e irridente di qualche contadino del luogo, incontrato per caso. A differenza di tanti nativi di questi posti, si può dire che Ipo dia del tu alle montagne. Modestamente anch’io porto il mio contributo, in termini di cognizioni botaniche e ornitologiche. Ma non sempre la cosa a lui è gradita, perché non vuole sprecare minuti, né essere distolto dall’obiettivo della giornata, vale a dire la meta da dove godersi lo spettacolo impareggiabile delle vette, a cui punta come un segugio, come attrazione fatale o surrogato della fede, che la natura offre gratis a chi ha lo spirito e la tenacia per arrivare sino in cima, per contemplare il Creato. 

A me personalmente l’altura, forse per la ridotta pressione atmosferica, sblocca la fantasia e mi consente d’annotare versi e pensieri in libertà, che in seguito assemblerò a tavolino, e tutto questo senza fermarmi e mantenendo il giusto ritmo nella salita o nella discesa.

Raggiungiamo Molveno passando da San Lorenzo in Banale, e non da Mezzolombardo come di solito si fa, perché stavolta si temeva un maggior flusso di traffico da quella parte e l’ingorgo per lavori in corso prima di Lavis, che avrebbero potuto rallentarci il viaggio.

Parcheggiata l’auto, con la cabinovia, una sorta di gabbia senza tetto, ci portiamo al rifugio Pradel e da qui, dopo aver consumato un discreto caffè, con il pulmino, che è compreso nel prezzo del biglietto, al rifugio successivo, il Montanara a 1.525 metri.

Zaino in spalla, con dentro giacca a vento e un po’ di vettovaglie, scarponi allacciati stretti ai piedi, per salvaguardare le caviglie, un cappellino in testa, bastoncini in mano e una buona elasticità di gambe, imboccheremo il sentiero che sale per il bosco. Oggi non c’è bisogno di ramponcini, casco, guanti, ciaspole e altro materiale. Prima di avviarci ammiriamo la cima del Croz dell’Altissimo e Cima Brenta, alta 3.150 metri, spostata più a nord-ovest, la seconda per altezza del gruppo dopo Cima Tosa, che di metri ne fa 3.159, la cui sagoma s’era intravista attraverso i vetri della macchina, prima di arrivare a San Lorenzo in Banale, che ha conservato alcune antiche case tipiche con fienile.

Oggi ci attendono 814 metri di dislivello. Non sono pochi, soprattutto se farà caldo.

All’attacco del bosco si percepisce un odore fungino. In settimana si è scaricato qualche temporale notturno, e la luna di questo periodo ha propiziato la comparsa dei primi funghi della stagione, i fioroni. Io sono già andato alla ricerca di funghi, giorni fa, ma niente porcini. Vi erano solo funghi di scarso interesse, nei boschi del pinetano.

Camminando e aguzzando la vista, noto un piccolo porcino e poi un altro poco distante. M’avvicino per una verifica, resto deluso. Sembrano due satanas, l’unica brisa malefica.

Attacchiamo a salire nel bosco misto d’aghifoglie e latifoglie, per lo più abeti, larici e faggi, con un sottobosco erboso che pare l’habitat ideale per i funghi. Infatti, ogni tanto divago rispetto al tracciato del sentiero, ma intravedo solo qualche lattario, russula, clavaria o gonfidius che neanche tocco. Mi rassegno: niente brise oggi! Ma l’obiettivo odierno non erano i funghi, e poi la raccolta in questa parte del Parco Adamello-Brenta è regolamentata.

S’ode qualche famigliola di codibugnoli, uccellini del bosco con la lunga coda, che si richiamano tra i rami col loro intermittente pigolio, e a terra, ogni tanto, si vede qualche cumulo d’aghi di pino, che la formica rufa, ora che è estate, sta incrementando di nuovo materiale. Salendo, cominciamo ad inerpicarci tra i pini mughi, che hanno finalmente rialzato il capo, dopo essersi scrollata di dosso la non molta neve di quest’inverno, e i maggiociondoli, e i rododendri ormai alla sfioritura.

Rimangono in piedi ancora molti tronchi secchi, troppi, degli alberi bruciati da un vasto incendio di una decina d’anni fa. Quella degli incendi boschivi, si sa, permane da sempre come piaga nazionale, soprattutto d’estate, quando la calura fa da incentivo alla combustione. Chi li provoca, per colpa o dolo, ha il comportamento di un criminale distruttore, che non s’immagina neppure il rispetto che si deve alla natura. E non pensa ai decenni che ci vogliono, e alle cure delle guardie forestali, perché queste ferite siano cicatrizzate dal verde delle nuove piante, prima che il suolo sia eroso.

Il sentiero ci tira su inesorabilmente, ma ci raggiungono due signori emiliani, che desiderano informazioni sul come arrivare sul Piz Gallino. Ipo dà le esaurienti indicazioni. D’altronde questa è la terza volta che sale sull’Altissimo, mentre per il sottoscritto è la prima.

Incrociamo altri escursionisti che già scendono, evidentemente erano partiti di buonora stamattina, e una coppia, più attempata di noi, che sosta per tirare il fiato prima di riprendere a salire. Sono tedeschi di Bonn, arrivati a Trento col treno qualche giorno fa. Da Castel Toblino, salendo a piedi per Ranzo, hanno fatto il Passo San Giovanni sulla Paganella e sono scesi a Molveno, dove hanno pernottato in albergo. Nella confabulazione lui cita qualche testo letterario in latino e Ipo, vecchio di studi classici ed ex docente di lettere e filosofia, va in brodo di giuggiole.

D’improvviso s’ode il crì-crì-crì-crì di un gheppio. Mi soccorre il mio bird-watching, ma la sua silhouette non compare. Troppo alto nel cielo, e poi stanno avanzando delle nuvole basse. Apparirà, di lì ad alcuni minuti, quando ormai abbiamo già salutato in inglese e tedesco gli escursionisti teutonici, e ripreso a salire.

Ormai siamo fuori del bosco, ma le nuvole a tratti coprono il sole e una brezza fresca, che scende lungo il fianco della montagna, ci gratifica molto, e allevia la fatica.

Oggi non si vede l’aquila. Ne osservammo una coppia che saliva una termica, un paio d’anni fa tra queste montagne. Fu uno spettacolo impareggiabile. Non si vedono marmotte e neanche camosci.

Il sentiero prima sale e poi scende, per poi riprendere a salire. Sulla destra s’intravedono a tratti due enormi coni di roccia chiara. Sono Cima dei Lasteri e il Piz Gallino. Attraversiamo antichi franamenti di materiale roccioso scomposto, evitiamo accuratamente i crepacci, ci affacciamo su qualche inghiottitoio. Insomma l’acqua e gli altri agenti atmosferici fanno bene il loro lavoro, e le montagne nei decenni cambiano volto. E pensare che centinaia di milioni d’anni fa, qui c’era il mare tropicale. Queste rocce costituivano i suoi fondali a strati sovrapposti, che vermi, molluschi, coralli e altri esseri marini incrementavano lentamente, fissando il calcio sottratto all’acqua.

Attraversiamo distese erbose e s’intravede di nuovo qualche fungo. Sono dei tricholomi, che stanno bene dove si trovano. C’imbattiamo in una varietà di fiori belli e colorati: il velo della sposa, i gerani selvatici, la genziana maggiore e l’arnica, note agli erboristi, e tante nigritelle. Ogni tanto mi chino e porto il mio naso fino alla cotica erbosa per aspirare, a piene narici, il profumo di cioccolato alla vaniglia di queste orchideacee alpine, di color rosso-porpora scuro. E poi, lungo i ciglioni riparati, tante stelle alpine. Sono in piena fioritura adesso. Pare un eden.

Non si vedono gigli rossi oggi, e il martagone, già sfiorito, ostenta capsule gonfie di semi. Il fiore di un’ombrellifera, la panace, puzza di boazze di vacca. Ma qui non ci sono né malghe né bovini. Le vacche sono a Malga Spora, nel pianoro in basso, ad est rispetto a dove ci troviamo noi.

Giù continua ad addensarsi la foschia, la visibilità dei luoghi ne risente. A nord sono le nubi che fanno ressa per nascondere le vette, che solo a tratti fanno capolino.

Dopo quattro ore di salita siamo finalmente in cima al Croz dell’Altissimo. Ci sentiamo al livello di Cima dei Lasteri e Piz Gallino, anche se questi sono più alti di poco più di cento metri rispetto a noi.

Cima Brenta ha una bella canottiera bianca e grigia di nubi, che a tratti diventa cappotto o immensa coltre. Noi si vorrebbe che il vento glieli sbrindellasse quei vapori, anziché addensarli, ma solo per qualche istante le cime si scoprono e si lasciano intravedere nel denso ammasso. A fotografare in queste condizioni, neanche a pensarci, la digitale appiattirebbe tutto.

Consumiamo tranquillamente il nostro solito pasto frugale di montagna: due panini con un po’ di formaggio, una mela e qualche sorso d’acqua, che d’inverno invece è tè caldo o caffè nel thermos. Ma continuiamo a scrutare il circondario. Non si sa mai, le nuvole si muovono, noi siamo lì pronti a carpire qualche inedita scena di guglie, pareti illuminate da qualche spiraglio di sole radente, ghiaioni per dove passa il sentiero Orsi, e capire quanto è lontano il Grostè, da cui, quattro anni fa partimmo, dopo essere saliti da Campiglio con la cabinovia, per fare il sentiero Benini e andare a scendere al rifugio Tuckett. Non è difficile capire dove si trova il rifugio Alimonta, a cui arrivammo, un altro giorno dello stesso anno, attraversando il sentiero Sosat.

Di fronte a noi si mostrano bene lo Spallon dei Massodi, Cima Roma, la Val Pèrse, la Busa dell’Acqua, le cime di Vallazza e Gaiarda, il Crozzon della Spora. Il silenzio è assordante, ma in sottofondo la sinfonia dell’acqua, che scende proprio dalla Busa dell’Acqua, sale melodiosa da laggiù fino a noi. Inspiriamo aria pura e fresca a pieni polmoni, commentiamo ciò che si vede e ciò che è nascosto. La nostra immaginazione basta e avanza, per tante ipotesi possibili o fattibili.

Dopo una mezz’oretta di sosta, s’è fatta l’ora d’avviarsi per il rientro. Optiamo per il sentiero settentrionale, opposto a quello della nostra salita. Diamo l’ultima occhiata alla croce, che rispetto a noi è sulla parte meridionale della vetta del Croz dell’Altissimo, e ci dirigiamo verso Passo Lasteri. Da lì si ammira bene Malga Spora e scendiamo a Passo Clamer, dove c’è un grosso masso in bilico, sulla cresta di roccia. È il Sasso Clamer che si nota anche da un certo punto della Val di Non.

Il sentiero a tratti è impervio e scivoloso. Bisogna fare attenzione al ghiaino, sempre infido. Dopo un lungo tragitto, che passa sotto la Busa dell’Acqua e incrocia la Val Pèrse, arriviamo finalmente al rifugio Croz dell’Altissimo. Ipo tracanna un boccale da mezzo litro di radler, un cocktail di birra e limonata. Io m’accontento di un birrino alla spina. Sono meno pretenzioso.

La cabinovia ci aspetta a rifugio Pradel, per riportarci a Molveno. L’ultima corsa d’estate è alle 18.30. Dobbiamo sciogliere il passo, anche se un po’ di stanchezza s’avverte. Salutiamo il gestore e qualche altro escursionista, e scendiamo per il sentiero che si mantiene alto, sopra la Val delle Seghe. Passiamo sotto la parete del Croz dell’Altissimo, palestra severa per chi fa ascensione. Ne ammiriamo la bianca verticalità, ma non ci riguarda. C’imbattiamo in numerose lapidi lungo il sentiero. Alcune riportano nome e foto, altre il solo nome, d’uomini e ragazzi, che troppo presto si sono immolati negli anni a questa montagna, che pure non è la più impegnativa.

Volano allegramente le rondini di montagna e i balestrucci, disegnando ampi e improvvisi ghirigori nell’aria. Qui appiccicano i loro nidi di fango sotto le rocce aggettanti. Niente rondoni dal petto bianco, che capita di ammirare altrove, attorno agli alti picchi. Poi attraversiamo il bosco. Tanti ciclamini sono fioriti lungo il sentiero. Di mattina inondano di profumo l’habitat, ma ora, nel pomeriggio infocato, anch’essi stentano a respirare.

Arriviamo al Pradel. Dalla cabinovia sembra che ci si vada a tuffare nel lago di Molveno.

L’auto è diventata un forno. Salutiamo le montagne, dandole appuntamento di lì a qualche giorno. Noi non siamo mica a Milano a lavorare! Abitiamo ad un tiro di schioppo e abbiamo un’idea fissa: mai di domenica, perché qui si fa la folla. Ripiomberemo da queste parti, per rifare il pieno d’aria fina, riempirci ancora gli occhi e il cuore, e riprendere il dialogo, mai interrotto, con la natura.

 

Le foto allegate, da me scattate, vogliono essere un omaggio alle bellezze del Trentino, mia terra d’adozione, che m’ha consentito ciò che io chiamo la maturazione artistica e culturale “extraterritoriale”.

 

                        Zell, 29 luglio 2005                                                    
 Angelo Siciliano

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