GLI ZINGARI E I CONTADINI DI MONTECALVO IRPINO

Come accade nella nostra civiltà postindustriale anche nel passato

gli extracomunitari erano mal tollerati.

Oltre mille anni di storia, anche tragica, degli zingari.

Nel primo millennio d. Cristo arrivavano i barbari, ad ondate successive, e depredavano, devastavano città e territori che andavano conquistando.Nel secondo millennio, in Europa, sono arrivati gli zingari, gruppi etnici nomadi e pacifici che s’industriavano per vivere. Se alcuni gruppi di barbari diventavano stanziali, e col tempo erano assimilati dalle popolazioni locali, gli zingari, invece, hanno sempre cercato di custodire gelosamente nei secoli la propria cultura, la propria identità e la propria libertà.

E questo gli ha complicato non poco la vita.Gli zingari costituiscono gruppi etnici migranti e sono i discendenti di una popolazione nomade originaria dell’India nord-occidentale.Attraversate la Persia e l’Asia mediterranea, nel IX sec. entrarono nei territori dell’impero bizantino.Tra il X e il XIV sec. penetrarono nell’Europa danubiana e meridionale, quindi in Egitto e nell’Africa settentrionale.Sicuramente già nel XIV sec., dopo la battaglia di Kosovo del 1392, giunsero nell’Italia centro-meridionale, provenienti dalla Grecia, e nel secolo successivo, per la precisione nel 1422, erano a Bologna e a Roma, com’è comprovato da alcuni documenti che sono stati ritrovati. Nel XV sec., anche se molti zingari rimanevano nell'Europa balcanica, il resto si disperdeva nei paesi dell’Europa occidentale e orientale: Germania, Ungheria, Svizzera, Paesi Bassi, Francia, Penisola iberica, gran Bretagna, Paesi scandinavi, Polonia, Paesi baltici e Russia. All’inizio erano ben accolti dalle popolazioni ospitanti, perché ispiravano simpatia. Portavano allegria con la danza e la musica, godevano della protezione della nobiltà, e poi, spacciandosi per pellegrini, anche dell’ospitalità gratuita, imposta ai cristiani dalla religione. Non passava molto tempo, però, che cominciavano ad essere malvisti dalle popolazioni locali, per la loro diversità, e cominciavano le repressioni. Da una parte si cercò di liberarsi di loro con le espulsioni, dall’altra si tentò l’assimilazione coercitiva, ma fallirono entrambe le iniziative. Misure d’espulsione furono adottate in passato da molti paesi europei: Francia, Paesi Bassi, Spagna, Gran Bretagna ecc. Alcune leggi decretavano l’espulsione pura e semplice, altre imponevano delle condizioni per poter restare nel paese: lavorare, non praticare l’accattonaggio, avere fissa dimora. Erano previste pene severe per i trasgressori: internamento, lavori forzati, torture, esecuzione, deportazione in Africa e in America. Poiché i tentativi d’espulsione erano inefficaci, alcuni paesi europei optavano per la via dell’assimilazione obbligata degli zingari. In Ungheria era fatto loro divieto di parlare la propria lingua, fare i piccoli lavori abituali, mendicare, vestirsi dei loro orpelli, occuparsi dei propri bambini. In Spagna avevano l’obbligo di non distinguersi più dalle popolazioni ospitanti, né per lingua né come luogo abitativo. In Francia s’introdusse il sistema delle retate fino al XIX secolo. Gli uomini erano mandati ai lavori forzati, le donne e i bambini erano chiusi in ospizi di mendicità. Gli zingari, in qualche modo, hanno resistito a quanto i paesi europei ponevano in atto contro di loro, e, nonostante un gran numero di torturati e uccisi, la loro razza non è stata sterminata, perché avevano imparato a adottare delle strategie di salvezza. Infatti, coloro che intuivano un pericolo grave, abbandonavano il paese, ma s’insediavano nelle regioni di frontiera, o si rifugiavano nel paese vicino al minimo allarme. Sarebbero ritornati quando il pericolo fosse cessato. Il loro era un continuo andare e tornare, secondo i pericoli. Le misure d’assimilazione obbligata non riuscivano a promuovere l’integrazione degli zingari con le popolazioni locali, perché i modi di vivere erano troppo diversi. Alla fine del XVI sec. iniziavano, su ordine dei governi portoghese, spagnolo, francese e britannico, le deportazioni degli zingari in America e in Africa, e sarebbero continuate anche nei secoli XVII, XVIII e XIX. Sono sempre vissuti in modo autonomo rispetto alle popolazioni ospiti. Il fatto di non aspirare all’integrazione con loro – l’assimilazione avrebbe comportato la rinuncia ai propri usi e costumi, e quindi la scomparsa della propria identità –, li ha resi bersaglio di dure persecuzioni nei secoli. Nel Novecento, in Italia, furono perseguitati e internati dal fascismo. In Germania il nazismo perpetrò il genocidio anche contro gli zingari, facendone sparire almeno mezzo milione nei forni crematori. In Italia gli zingari hanno continuato ad arrivare ad ondate successive: a fine Ottocento dopo essersi liberati dalla schiavitù romena; dopo la prima guerra mondiale, per il crollo dell’impero austro-ungarico; dai paesi dell’Est a partire dagli anni Sessanta; nell’ultimo decennio del Novecento per lo sfaldamento dell’ex Jugoslavia. Per gli zingari esistono solo due stagioni, quella fredda e quella calda. Alla primavera e all’autunno non danno alcun valore. Si trovano bene quasi ovunque. Hanno rinunciato a conquistare ricchezza e potere, e non hanno mai aspirato ad un proprio territorio, dove organizzarsi politicamente, amministrativamente, ed eventualmente crearsi un proprio stato. Vivono sotto forma di clan eterogenei, differenti tra loro per usi, costumi e religione. Hanno sempre avuto una coesione sociale molto forte, con proprie regole e sanzioni da applicare ai trasgressori appartenenti al clan. Sostano anche in mezzo alla natura, ma di solito prediligono la periferia di paesi o città. Possono dormire per terra, in una tenda, nelle roulotte o nei caravan, sotto i ponti, in edifici in rovina, in grotte e caverne. Gli spostamenti devono essere veloci e continui. Sono fatti in grandi gruppi o clan, col tempo bello.In passato si spostavano a piedi, a cavallo, o su carri a due o a quattro ruote. Oggi il carro coperto è stato sostituito da roulotte e caravan, ma si spostano anche in auto. Quando il caravan non è più idoneo per spostarsi, e lo zingaro non è in condizioni di comprarsene uno nuovo, è costretto a sedentarizzarsi. Gli zingari che si sono sedentarizzati vivono nei campi nomadi, nelle baraccopoli, o roulottopoli attrezzate alle periferie delle grandi città e nei “quartieri zingari”, la cui popolazione è composta oltre che da zingari, da qualche straniero e dalle persone che risiedevano già in precedenza in quei luoghi. Coloro che hanno scelto di passare a vita sedentaria, e ve ne sono anche in Italia, si sono adeguati alle regole di convivenza e alle leggi dei paesi in cui si sono integrati definitivamente. Anche se hanno adottato la lingua e la religione dei paesi ospitanti, il loro modo di parlare e di comportarsi ne rivelano l’origine. Comunicano tra loro adoperando ancora dei dialetti neo-ariani, ed è stato dimostrato che la lingua zingara appartiene alla famiglia delle lingue indo-europee. Viene dal sanscrito e ha legami con alcune lingue moderne come l’hindi, il guzurati, il mahrati e il kashmiri. Erano analfabeti in passato e non hanno potuto scrivere e tramandare la propria storia, se non oralmente. Se qualcuno gli chiedeva delle proprie origini, erano elusivi o s’inventavano che erano Signori del Piccolo Egitto, duchi, conti, cavalieri, capitani, capi di pellegrini espianti una colpa. Per poter scrivere la storia degli zingari, ci si è dovuti rifare a quanto hanno scritto di loro i popoli con cui sono venuti in contatto, e basarsi su ricerche e comparazioni linguistiche. Se non c’è più bisogno di dimostrare la loro origine indiana dal punto di vista linguistico, ci sono altre affinità tra zingari e indiani, e sono la musica, la danza e la lavorazione dei metalli. Secondo alcuni studiosi, gli zingari apparterrebbero alla casta dei paria per i lavori che fanno, subalterni e umili, e l’estrema povertà. Ma un autore zigano sostiene che gli zingari facciano parte di una casta aristocratica e militare. Nei secoli della diaspora il popolo zingaro, che pure aveva una propria religione, si è adattato alle religioni dei popoli con cui ha convissuto e ne ha accettato, pur di riuscire a sopravvivere, riti e credenze. Perciò vi sono zingari ortodossi, cattolici, luterani e musulmani, con evidenti differenze nel popolo zingaro. Alcuni Rom e Sinti festeggiano il Natale e la Pasqua, altri il Bajram ed il Kurban Bairam. Hanno tuttavia conservato alcuni elementi comuni d’origine indiana. Credono negli spiriti dei morti e hanno fede nel destino, identificabile con la fortuna. Fanno parte della loro cultura i miti dell’acqua, della battaglia e della vittoria di Indra, una delle grandi divinità induiste con Shiva e Visnu. Poiché Visnu, in tre incarnazioni successive, si sarebbe manifestata agli uomini come Rama, da certa parte zingara si vorrebbe accreditare l’ipotesi che rom, o roma, stia a significare figli di Rama.Tra Rom e Sinti, sia cristiani che mussulmani, vi sono alcuni santi comuni d’origine indiana, come Bibi la Nera, detta anche Sara, e S. Giorgio. La festa della dea Bibi, considerata dai Rom protettrice dei bambini, si celebra a marzo, sotto un grande albero. In Serbia la si rappresenta come la dea Kalì, venerata in India come compagna di Shiva. Anche S. Giorgio si festeggia in primavera. In suo onore si sacrifica un agnello e parte della sua carne si appende ad un albero, perché gli spiriti buoni, vale a dire le fate, possano cibarsene e continuare a proteggere la vita dei Rom. Somaticamente hanno occhi e capelli molto scuri, pelle olivastra o bruno-scura e la somiglianza tra zingari e indiani è innegabile.Il loro abbigliamento è stato sempre vistoso, soprattutto nelle donne, con vesti lunghe fino a sopra le caviglie, collane e ornamenti appariscenti. Dalla Treccani che, assieme ad altre enciclopedie, omette le deportazioni degli zingari e altre cose le travisa, si ricava che nei clan girovaghi, che si spostavano in carovane, vigeva il matriarcato. Il maschio si aggregava alla famiglia della sposa, a cui appartenevano il carro coperto, la tenda, gli arredi e gli attrezzi di lavoro. Alla donna appartenevano i figli nati dall’unione, nonché il patrimonio familiare. La zingara più anziana, detta “madre zingara”, aveva grande ascendente e autorità sul gruppo. I capi degli zingari diventavano tali per elezione. Da studi apparsi in questi ultimi anni, però, quanto qui riportato non trova riscontro, a meno che le cose non abbiano subito un totale ribaltamento cogli anni. Infatti, ora risulta che le donne sono sottomesse ai maschi, anche se il più delle volte sono esse che si occupano del sostentamento della famiglia chiedendo la carità, leggendo le mani, vendendo fiori e altri prodotti del loro artigianato. Il matrimonio non è ancora una libera scelta della donna, che si vede imporre il marito, oggi come in passato, ma pare che anche tra gli zingari serpeggi l’esigenza della pari dignità tra uomo e donna. La famiglia e il clan sono fondamentali per gli zingari. Grazie a questi legami essi risolvono i propri problemi sociali e si prendono cura di vecchi e bambini. I loro vecchi non verrebbero mai relegati in una casa di riposo, così come facciamo noi con i nostri vecchi. Per quanto riguarda i bambini, la famiglia zingara deve farsi carico anche di quei compiti e funzioni, che per noi sono assolti dalla scuola e da altri enti istituiti dalla pubblica amministrazione. Gli zingari, in Italia, si distinguono in Sinti, Rom Abruzzesi, Rom Lovara e Kalderàs, Rom Rudari, Rom Khorakhana e Kanjarja, Kaulja, e Camminanti siciliani.

Sinti deriva da Sindh, la regione del Pakistan occidentale, attraversata dal fiume Indo, dalla quale partirono. In Italia rappresentano gli zingari di più antica immigrazione, arrivati all’inizio del 1400. Nomadi dediti in gran parte allo spettacolo viaggiante, in prevalenza giostrai attrezzati di luna park e titolari di circhi, sono presenti in alcuni quartieri periferici delle città e assumono denominazioni territoriali: piemontesi, lombardi, veneti, emiliani, marchigiani.

Rom deriva dall’aggettivo romanò, e vuol dire maschio, uomo libero. I Rom, o anche Roma, sono dediti all’allevamento e al commercio dei cavalli.

I Rom Abruzzesi, giunti in Italia alla fine del 1300, si diffondevano nell’area centro-meridionale. Quelli stanziatisi in Abruzzo, tra le due guerre mondiali si trasferivano a Roma e vivono nella baraccopoli del Mandrione, nelle case popolari di Nuova Ostia e Spinaceto. Alcuni vivono in case di loro proprietà lungo la Tuscolana e l’Anagnina.

I Lovara e Kalderàs, arrivati in Italia all’inizio del Novecento, derivano il loro nome dal mestiere d’allevatori di cavalli – la parola ungherese lob significa cavallo –, e sono anche fabbri, indoratori d’arredi sacri e artigiani del rame per uso domestico. Abitano in case o in roulotte.

I Rudari, giunti in Italia negli anni Sessanta dall’originaria Romania, vivono in accampamenti organizzati lungo la Tiburtina e la Collatina. Lavorano il rame, sono musicanti e vendono fiori di carta per strada.

I Rom Khorakhana e Kanjarja cominciavano ad arrivare in Italia negli anni Sessanta dalla Jugoslavia centro-meridionale. I primi sono musulmani, i secondi cristiani di rito ortodosso. Negli anni Novanta, con la guerra civile in Bosnia, gli arrivi si sono intensificati. Creano problemi d’ordine pubblico a quelle amministrazioni locali che non sono in grado di fornirgli i servizi previsti dalla legge.

I Kaulja sono gli ultimi arrivati. D’origine algerina, provengono dalla Francia. Sono molto poveri e talvolta si aggregano ai Khorakhané, che hanno la stessa fede religiosa.

I Camminanti siciliani, di cui si occupò anche l’etnologo Giuseppe Pitré, che però non riuscì a scrivere molto su di loro, sono originari della Sicilia orientale, alloggiano in baracche e vivono di commercio ambulante.

In Spagna gli zingari sono chiamati Gitanos e in Inghilterra Gipsies, per la loro presunta origine egiziana. In Francia sono detti Bohémiens, perché ritenuti originari della Boemia.

Varie erano le attività svolte dagli zingari nomadi in passato: suonatori ambulanti e danzatori, chiromanti, accattoni, raccoglitori di rottami di ferro e altri metalli, artigiani del rame e del cuoio, commercianti ambulanti, mercanti d’asini e cavalli. Contro gli zingari esistono molti pregiudizi e luoghi comuni. Li si accusa d’essere sporchi, parassiti, accattoni, sfaticati, ladri di denaro, alimenti, cavalli ed altri animali, contrabbandieri e bari al gioco, di approfittarsi della credulità della gente con le divinazioni, le pozioni magiche e gettando il malocchio, di rapire i bambini per avviarli all’accattonaggio. Un campionario vasto, come si può notare, entrato a far parte dell’immaginario collettivo. È chiaro che non tutti gli zingari sono sporchi, ladri, accattoni o sfaticati, ma si sa i pregiudizi sono difficili da cancellare. Con la globalizzazione, nuovi problemi hanno investito la popolazione zingara. In questi anni si è assistito alla progressiva perdita del proprio mestiere da parte delle comunità zingare. Oggi non riescono più ad essere commercianti di cavalli, fabbri o artigiani del rame. I ragazzi rom devono obbligatoriamente frequentare la scuola e conseguire un titolo di studio. Ma la domanda da porsi è: «Troveranno poi lavoro come gli altri?». Se gli zingari continueranno ad avere problemi per il lavoro e la casa, oltre che con la legge, il loro stato di povertà e marginalizzazione permarrà, e non sarà facile che la loro vita cambi in meglio. Comunque esiste anche il punto di vista degli zingari nei nostri confronti. Essi ci chiamano “gagiò”, al plurale “gagè”. Di noi pensano che ci ammazziamo di lavoro, nella speranza vana di arricchirci, o diventare qualcuno. E poi abbiamo fatto tante leggi, troppe, soffocando con la burocrazia la libertà di tutti. Sono tuttavia rassegnati a convivere con noi, e non potrebbe essere altrimenti. Ci rinfacciano che un Rom non ha mai comperato o venduto un Rom. In passato un Rom poteva vendere un cavallo ad un altro Rom, ma oggi tutti fanno la stessa cosa e che si può vendere ad un altro Rom? Ci considerano potenti, ma essi presumono d’essere più furbi di noi, e quando ce ne combinano qualcuna, è normale che ne possano godere nel loro intimo. In Italia, come s’è visto, la popolazione zingara è molto eterogenea. Le stime la valutano in circa 110.000 unità, la più bassa d’Europa, di cui 6.000 a Roma, e 70.000 quelli aventi la cittadinanza italiana. In Europa, invece, gli zingari dovrebbero aggirarsi intorno ai dieci milioni. Le legislazioni degli stati, con i loro obblighi burocratici e amministrativi, mettono a dura prova l’esistenza degli zingari, istintivamente portati al rifiuto di tutto quanto sa di documenti scritti. Si sentono controllati, schedati, perseguitati, ridotti a dei meri numeri da incasellare, e tutto ciò contrasta col loro spirito di libertà e indipendenza. Nella legislazione italiana, gli zingari sono menzionati solo nelle “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche”. Poi valgono anche per loro tutte le altre leggi, come per noi, ed essi non vi si raccapezzano. Per la nostra anagrafe non è valido il matrimonio zingaro e i figli di una coppia zingara possono portare indifferentemente il cognome del padre o quello della madre. Sono soggetti alle circolari dei vari ministeri e alle disposizioni per gli stranieri. Regioni come il Lazio e il Veneto hanno cercato in questi anni di colmare il vuoto legislativo nazionale, emanando proprie normative a favore degli zingari e prevedendo contributi per attrezzare i campi, agevolare l’acquisto di alloggi, e a sostegno della loro cultura e artigianato. Alcune associazioni sono state costituite come la “Romani Union”, Associazione Mondiale degli Zingari, riconosciuta dall’O.N.U., che opera nel settore dell’emarginazione del popolo zingaro, e l’italiana A.I.Z.O., Associazione Italiana Zingari Oggi, organizzazione nazionale di volontariato fondata nel 1971 a Torino da zingari e gagè, non zingari, affiliata alla prima, con lo scopo di rimuovere nel nostro paese le cause dell’emarginazione verso questo popolo.

Gli zingari e i contadini montecalvesi.

Gli zingari giravano per le fiere e talvolta anche per i mercati settimanali dei paesi meridionali, per vendere o comprare asini, cavalli ed altri animali.

Quando giungevano temporaneamente a Montecalvo per le fiere di Santa Caterina o della Croce, e il tempo era inclemente, tra le tantissime grotte artificiali esistenti in paese, essi preferivano alloggiare di solito ‘nd’à la Rótt ‘li zìnghiri, nella Grotta degli zingari, o in quella di lu Ruccàniju, ubicate rispettivamente sotto via Lungara Fossi e in via S. Vito, in corrispondenza del vecchio campo sportivo. Erano due comodi ricoveri per persone e animali, collocati fuori del perimetro della cinta muraria medievale del paese.

La Rótt ‘li zìnghiri si trovava sotto il complesso ospedaliero duecentesco di Santa Caterina d’Alessandria, che pare abbia ospitato alcuni crociati in partenza per la Terra santa, collocato in quella che era la parte meridionale della cinta muraria. Questa grotta, scavata nel tufo giallo sabbioso, era molto alta, ampia e all’interno si biforcava in due direzioni, tale da sembrare una caverna. Era occupata temporaneamente dagli zingari nell’Ottocento e forse anche prima, ma dopo la prima guerra mondiale non è più successo. Ormai era diventata un cacatoio pubblico, perché le case circostanti, cresciute di numero, erano sprovviste di servizi igienici, e poi di fianco ad essa era stata creata una discarica pubblica a cielo aperto.


Angelo Siciliano - La grotta degli zingari a Montecalvo Irpino - dipinto 2005

 

Nel terreno incolto, sottostante la grotta, durante l’inverno c’era tanta cicuta assieme ad altre specie vegetali, e un anno causò la morte dell’asina di Pèppu Chjanèlla, il cui cognome era Pisano. Legata lì per pascolare, questa pianta, che era stata letale per Socrate, lo fu anche per quella bestia. Sempre questo contadino, negli anni Sessanta, ripulì e sistemò questa grotta con la sua famiglia per usarla come deposito.

Ora la Rótt ‘li zìnghiri non esiste più, perché negli anni Settanta, dopo il terremoto del 1962, il Genio Civile vi ha fatto costruire davanti un muraglione di cemento armato, per contenimento e sostegno del terreno. In questo modo furono chiuse complessivamente cinque grotte, allineate in quel punto, che in parte erano ancora adoperate dalla gente come cantina, legnaia e pollaio.

La grotta di lu Ruccàniju era lontana dal paese ed era una grotta di campagna. Nei decenni passati si raccontava che una notte, si era agli inizi degli anni Trenta, al Ruccàniju, dov’era accampato all’aperto un gruppo di zingari, fecero irruzione i carabinieri, che li perquisirono, intimarono loro lo sgombero e spararono per costringerli a smobilitare e partire in fretta. Alcuni contadini del posto sentirono una zingara piangere e urlare disperatamente, che le avevano ammazzato un bimbo. Ma questa uccisione non trovò conferma nei giorni successivi.

Quando i montecalvesi si recavano alle fiere che si tenevano a Buonalbergo, notavano che alcuni zingari bivaccavano sotto l’alto ponte situato all’ingresso di quel paese.

Negli anni Cinquanta, ricordo personalmente la sosta a Montecalvo di una carovana di zingari, con numerose persone d’ogni età e molti carri coperti. Piantarono le tende nell’ampio piazzale, esistente allora di fronte al convento di S. Antonio, e lo occuparono quasi tutto. Ferravano cavalli, vendevano e stagnavano caldaie di rame ai paesani. Rimasero un paio di settimane. Poi smontarono tutto, si sistemarono nei carri e ripresero pacificamente il loro cammino.

Alla fiera della Madonna del Carmine, ad Ariano Irpino, un contadino montecalvese si recò, negli anni Quaranta, per vendere la sua giovane asina con un vispo puledrino (v. il cunto “Lu cangiariéllu” nel mio libro “Lo zio d’America”, editore Menna, Avellino 1988). Un paio di zingari, appena l’ebbero adocchiato, gli si avvicinarono portando a cavezza un’asina vecchia e un puledro magro. Gli chiesero se fosse disposto a scambiare le bestie. Lui rispose che voleva solo vendere. Allora gli proposero che avrebbero voluto provare la sua asina, prima di acquistarla, e a garanzia gli avrebbero lasciato in custodia le loro due bestie. Lui fu d’accordo. Scambiatesi le bestie, gli zingari si avviarono per andare a provare la giovane asina col puledrino, ma non tornarono più. Quando il contadino s’accorse del raggiro, era troppo tardi. Gli zingari si erano ormai dileguati. E il contadino, che di suo era un piccolo marijuólu, perché andava rubando ortaggi, qualche pecora e pollame, dovette incassare il colpo e tornarsene in paese con un’asina, che aveva i denti limati, un’unghia stuccata col cemento, e un puledro che appena si reggeva in piedi. Quell’asina degli zingari, lui non l’accettò mai. La lasciava libera di vagare per i campi, e una notte precipitò nel fosso della Ripa della Conca, trovandovi un’indegna morte.Capitava anche, che degli zingari in una fiera attorniassero qualche contadino, che era lì per vendere la sua bestia, e se costui non era d’accordo sul prezzo, essi non mollavano l’osso, sostando a poca distanza da lui. Nessun altro potenziale acquirente, mazziéru o zanzànu, delegato di un macellaio o sensale, gli si accostava. Se non voleva rientrare a casa con l’animale invenduto, era costretto a cederlo agli zingari a òssira rótt, cioè come se la bestia avesse una zampa rotta. Negli anni Trenta, ad una contadina, che si era appena avviata da casa per recarsi in paese a ffà nu surìziu, per sbrigare una commissione, si avvicinarono due zingare chiromanti. Cominciarono a proporle di volerle leggere la mano e predirle il futuro. Nel continuare a insistere, le passavano le mani addosso con destrezza. La contadina era ferma nel rifiutare la loro proposta ed esse dovettero desistere, e proseguire per la propria strada. Fatti che ebbe pochi passi, la contadina volle rassicurarsi che aveva ancora con sé, nella sacca sotto la veste, lu maccaturiéddru cu li sòldi, il fazzoletto col denaro. Accortasi che era sparito, corse a chiedere aiuto al figlio maggiore, che afferrò la furcìna di lu llardu, forcina per il lardo appeso alla pertica, e si diede all’inseguimento delle zingare che avevano già percorso un bel tratto di strada. Appena le raggiunse, le minacciò ca li ‘nfilàva cóm’a nu ruóspu, che le avrebbe infilzate come un rospo, se non avessero restituito il malloppo. Spaventate, le due zingare restituirono il fazzoletto con il denaro, sostenendo che era stata la contadina a regalarglielo. La cosa finì lì.

Esistono a Montecalvo due detti: “Quannu maji li zìnghir’a mmète!”, “Crapa, crapètt’e zzìnghiri so’ una razza!”,“Quando mai gli zingari a mietere!”, “Capra, caprette e zingari sono una razza!”. Essi la dicono lunga sul fatto che i contadini ritenevano gli zingari gente sfaticata, capace di vivere solo d’espedienti e parassitismo, oppure li assimilavano alle bestie, nella fattispecie alle capre.

Alcuni vocaboli come zénghiru, zénghira, zinghirijàni, zingariéddru, zingaràcchju, zingaro, zingara, insistere come le zingare, zingarello, zingarello monello, sono tutti riferiti agli zingari. E sempre costoro sono all’origine di epiteti e frasi, con cui i contadini si apostrofavano reciprocamente: zénghira mmaudétta, si veste com’a na zénghira, pare na zénghira, pare nu zénghiru, zécca nèura, zicchitèddra nèura, ziccu niéuru, zicchi niéuri, facci d’annimàla, Che ffacci di zénghira!”, “Fa accìdim’accìdimi, com’a li zzénghiri!”; zingara maledetta, veste come una zingara, pare una zingara, pare uno zingaro, scura come una zecca, scura come una piccola zecca, scuro come una zecca, scuri come le zecche, faccia d’animale, “Che faccia da zingara!”, “Provoca per essere uccisa, come le zingare!”.

Due soprannomi montecalvesi hanno a che fare con gli zingari: “lu zìnguru”, variazione di zénghiru, è molto diffuso, e “la zénghira”.

Anche il cognome Schiavone è molto diffuso a Montecalvo, e l’onomastica c’insegna che esso deriva dalla condizione di prigionieri di guerra, schiavi e servi senza diritti, oppure fa riferimento agli Slavi dell’Adriatico orientale. Buona parte di coloro che lo portano, erano e sono conosciuti con il soprannome di “lu zìnguru”. Abitavano quasi tutti al Trappeto, antico e caratteristico borgo montecalvese con abitazioni trogloditiche, abbandonato al suo destino dopo il terremoto del 1962.

Un vecchio contadino che portava il cognome Schiavone, con il soprannome “lu zìnguru”, ha sempre raccontato che suo nonno, nato all’inizio dell’Ottocento, sosteneva che la loro famiglia, e i loro parenti prossimi con lo stesso cognome, fossero tutti d’origine zingara, perché i loro antenati erano zingari che si erano sedentarizzati a Montecalvo.

Verso metà Novecento, in una grotta del Trappeto, alcuni zingari avevano trovato alloggio temporaneo per una fiera. La gente si allarmò ed essi furono cacciati via, in malo modo, dagli abitanti del posto, per il timore di furti. È probabile che, tra coloro che s’attivarono, vi fosse anche la progenie contadina di quegli zingari, che in passato si erano proprio lì sedentarizzati.

Mamma Schiavona, detta così perché scura di pelle, è l’appellativo con cui si chiedevano grazie o esaudimenti di desideri alla Madonna di Montevergine. Era conosciuta pure come “Madonna ‘la Shcavunìja”, “Madonna della Schiavonia”, che indicava la Dalmazia, o meglio l’attuale Bosnia.

La civiltà contadina, dove vigeva il patriarcato, e il capofamiglia tutto possedeva e disponeva, perché padre padrone, non accettava gli zingari, vale a dire gli extracomunitari di allora. Troppo diversi apparivano agli occhi dei contadini, che non ne percepivano la spiritualità, intrisa anche d’usi pagani, che gli zingari avevano assorbito nei paesi dell’Europa sud-orientale che li avevano ospitati, né ne accettavano certi comportamenti primitivi. Non ne capivano la lingua, il nomadismo, l’essere indipendenti, e non ne immaginavano l’alto senso di libertà. Insomma, quei forestieri erano degli estranei per il loro modo di affrontare la vita e concepire le cose. E poi avevano carnagione scura, e i contadini nutrivano forti pregiudizi nei confronti di chi non avesse epidermide chiara. Anche il contadino che si abbronzava troppo, perché costretto a lavorare sotto il sole, subiva qualche diceria, o addirittura intolleranza da parte dei compaesani. Dicevano “quiddru téne lu scuórciu ‘lu surpènt”, “lui ha pelle simile a un serpente”. A qualcun altro lo chiamavano “niróne”, “nerone”, e a qualche donna “la nèura”, “la nera”, e col tempo erano diventati anche questi dei soprannomi. Chissà, dall’inconscio collettivo dei contadini riaffioravano le passate scorrerie dei saraceni e altre persecuzioni perpetrate da chi aveva la pelle scura. E poi gli zingari, che vestivano in modo originale e appariscente, per i loro gusti erano troppo trasandati. Gli uomini, spesso con vistosi baffoni, ostentavano dei cappellacci sul capo e indossavano braghe e giacche sformate. Le donne avevano lunghe vesti, gilè, ampi grembiuli e qualche grossolana collana al collo.

Alcune zingare erano dedite alla chiromanzia, leggevano la mano e facevano predizioni.

A causa del loro comportamento, diffidenza e superstizione circondavano gli zingari in passato, e tuttora la gente li guarda con sospetto. Tuttavia, a Montecalvo, nella seconda metà del Novecento, gli zingari intrattenevano rapporti d’amicizia con un paio di famiglie che commerciavano, come loro, asini, muli e cavalli. Nelle fiere o nei mercati, oggi è difficile che i contadini li possano riconoscere a prima vista, perché ormai gli zingari hanno imparato a vestire normale come noi. Dalla fine degli anni Ottanta, nel portare avanti la mia ricerca e raccolta di ciò che chiamo “reperti folclorici”, nel cui ambito avevo incluso anche i canti religiosi e profani, m’imbattevo in un canto popolare religioso, la seconda versione di “Giuvidì Ssantu”, inerente ai riti pasquali, e rimanevo colpito dalle tre strofe finali. Nella prima di esse ”la zénghira di n’Agittu” infierisce con accentuato sadismo verso Cristo sofferente che sarà crocifisso. Nella successiva la Madonna incassa il colpo, ma nell’ultima strofa lancia due maledizioni alla zingara: perenne nomadismo e verminosi. Questo canto rientra nella tradizione dei canti della passione di Cristo. Era cantato dalle donne a metà Ottocento. Ma probabilmente i contadini l’avevano mutuato dalle sacre rappresentazioni, che si facevano durante i periodi pasquali nei secoli precedenti, e tramandato oralmente. Io ne ho raccolto tre versioni, che presentano tra loro diverse varianti.

Relativamente alla zingara che viene maledetta, contenuta solo nella seconda versione del canto, le ipotesi potrebbero essere due: la rappresentazione ufficiale della Chiesa conteneva la maledizione alla zingara e questa versione popolare la riporta pari pari; oppure è un’autonoma invenzione dei contadini, per manifestare il loro astio verso gli zingari. Delle due ipotesi, una sarà quella vera.

Nel mondo rurale montecalvese capitava che le donne, durante le liti, o per semplice maldicenza, s’insultassero reciprocamente con l’epiteto “zénghira mmaudétta”. La cosa appariva strana e inspiegabile, pure alla luce della cattiva fama di cui godevano gli zingari presso i contadini. La seconda versione del canto, riportata qui di seguito, se non altro ha il pregio di fornire un contributo e un’ipotesi chiarificatrice anche di questa questione.

GIUVIDÌ SSANTU Seconda versione
 
Giòrnu di Giuvidì Ssantu
e la Madonna si mette lu mantu.
Nunn’aveva cu cchi jì
e ssóla sóla si partì.
 
Truvav’a Ssan Piétru pi nnanzi:
«E tu che d’hai, Maria, ca piangi?».
«Ìju piangiu cu ddilóre,
ca l’agghju pèrzu lu mìju figliuólu!».
 
«E va ‘la casa di Pilatu,
là lu truóvi fracillàtu!».
E ttuppi ttuppi,
nnanz’a la porta.
 
«E cchi éja e cchi nunn’éja?».
«Éja Marìja da la piétà!».
«E cchi éja e cchi nunn’éja?».
«Éja Marìja da la pietà!».
 
«Eh mamma, mamma,
mò sì mminùta,
na stizza d’acqua
tu mi fussi purtata?».
 
«Nun sacciu nnì ttulì e nnì ttulà,
li ttrézzi di la capu mi vurrìja sciuppà!
Nun sacciu nnì ttulì e nnì ttulà,
li ttrézzi di la capu mi vurrìja sciuppà!».
 
E li giudèji ch’hannu sintutu,
e a Marìja l’hannu cacciata,
a Marìja l’hannu cacciata.
Affìja l’acétu l’hannu datu!
 
«Eh mamma, mamma, mò ti ni vàji,
va ppi la casa di li firràri,
fannu li fiérri luóngh’ e suttìli,
ch’hanna spurcià li ccarna mìja gintili!».
 
«Fannu li fiérri luóngh’e squadrati,
ch’hanna spurcià li ccarn’e li ccustàti!
Fannu li fiérri luóngh’e squadrati,
ch’hanna spurcià li ccarn’e li ccustàti!».
 
E rrispónne la zénghira di n’Agittu:
«Facìtili belli luóngh’e be’ ssuttìli,
ch’hanna spurcià li ccarna e li ccustàti,
di lu figliu di Marìja!».

La Madonna quannu sintètt questa nuvèla,
facètt l’uócchj’a ttre ffuntàni.
Putìvi lavà li piéd’a San Giusèppu!
Putìvi lavà li piéd’a San Giusèppu!
 
«E ttu, zénghira di n’Agittu,
sette juórni pi ppaése
e nun ti puózzi fidà di sta;
li viérmi sótta, chi ti pòzzunu fa!».
 
GIOVEDÌ SANTO Seconda versione
 
Il giorno di Giovedì Santo
la Madonna indossò il mantello.
Non aveva da chi farsi accompagnare
e sola soletta s’avviò.
 
«Incontrò S. Pietro per strada:
«E tu, Maria, cosa hai, che piangi?».
«Io piango con dolore
perché ho perduto il mio figliolo!».
 
«Vai a casa di Pilato,
là lo trovi flagellato!».
E toc toc,
sulla porta.
 
«Chi è e chi non è?».
«È Maria che invoca pietà!».
«Chi è e chi non è?».
«È Maria che invoca pietà!».
 
«Eh mamma, mamma,
visto che sei venuta,
un goccio d’acqua
tu mi avessi portato?».
 
«Non capisco più nulla,
le trecce dal capo vorrei strapparmi!
Non capisco più nulla ,
le trecce dal capo vorrei strapparmi!».
 
E i giudei che l’hanno sentita,
a Maria l’hanno cacciata,
a Maria l’hanno cacciata.
Perfino l’aceto hanno dato al figlio!
 
«Eh mamma, mamma, ora te ne vai,
passa per la bottega dei fabbri,
forgiano i chiodi lunghi e sottili,
che bucheranno le mie membra gentili!».
 
«Forgiano i chiodi lunghi e affilati,
che bucheranno carne e costato!
Forgiano i chiodi lunghi e affilati,
che bucheranno carne e costato!».
 
E s’intromette una zingara dell’Egitto:
«Forgiateli ben lunghi e ben appuntiti,
che devono bucare carne e costato,
del figlio di Maria!».

Alla Madonna, quando udì questa novità,
gli occhi le diventarono come fontane.
Le sue lacrime potevano lavare i piedi a S. Giuseppe!
Le sue lacrime potevano lavare i piedi a S. Giuseppe!
 
«Che tu, zingara dell’Egitto,
sette giorni per paese
non possa riuscire a sostare;
i vermi sotto, ti si possano sviluppare!».
 

 Nota

Il canto “Giuvidì Ssantu” s’ispira liberamente al Vangelo e ci perviene, come gli altri dalla metà dell’Ottocento. Era cantato dalle donne durante i lavori nei campi o accanto al focolare, mentre filavano, sferruzzavano, rammendavano, tessevano, o preparavano i pasti, e i bambini ne rimanevano incantati. Di esso ho raccolto tre versioni che presentano sostanziali differenze in alcune strofe.

Questa seconda versione, registrata nel 1999, pur provenendo dalla stessa fonte della prima, vale a dire mia madre Mariantonia Del Vecchio, classe 1922, contiene varianti e aggiunte sostanziali dalla terza strofa in poi, anche se conserva la stessa melodia della prima. In essa si riscontra l’intromissione di una zingara nel dialogo tra madre e figlio. Il suo intervento, oltre ad essere arbitrario, appare come una sadica forzatura, tendente ad aggravare le sofferenze di Cristo, e le attira addosso, seppure per bocca della cantatrice, l’ira della Madonna che le lancia una duplice maledizione: errare per il mondo e marcire.

Assieme alla terza versione del canto è inedita. La prima versione, invece, con altri canti montecalvesi cinque religiosi e due funebri, da me raccolti e trascritti –, è stata edita nel 1999 ad Avellino, nel libro “Canti religiosi”, a cura d’Aniello Russo per tutta l’Irpinia.

In totale i canti religiosi montecalvesi che ho registrato, trascritto e analizzato sono quindici, più due versioni differenti di “Giuvidì Ssantu”. Complessivamente i canti da me raccolti sono un centinaio, compreso un poema contadino cantato, “Angelica”, di 107 quartine.

Ho anche raccolto o riscritto una trentina di mini cunti religiosi sui santi, qualcuno dal contenuto farsesco o burlesco, cinque preghiere, di cui qualcuna medievale, e diversi canti funebri.

Ritengo che questo materiale rappresenti un patrimonio straordinario della cultura orale montecalvese, e non solo, ma è quasi tutto inedito.

Nonostante il progetto per la sua pubblicazione – unitamente al resto dell’archivio da me messo insieme a partire dal 1987 –, che ho presentato alle Istituzioni pubbliche nel 2004, pare che la cosa non interessi ad alcuno.
  Zell, 24 agosto 2005

                                                                                                           Angelo Siciliano

                                                                                                       www.angelosiciliano.com