Il 17 luglio 2008 è stato inaugurato il Museo della Religiosità Montecalvese e della Memoria Pompiliana.

È il primo museo del paese, con sede nel Palazzo Pirrotti di Montecalvo Irpino, casa natale di S. Pompilio Maria Pirrotti.Forse, tutto è iniziato o ha subito un’improvvisa e imprevista accelerazione il 16 marzo del 2001, quando, murate in un sottoscala di casa Pirrotti, agli operai intenti ai lavori di restauro dell’edificio non pare vero il rinvenimento di alcune statue lignee, che, seppure malridotte per le ingiurie del tempo, a un successivo e approfondito esame da parte degli esperti della Soprintendenza di Salerno e Avellino, sotto la direzione di Giuseppe Muollo, sono identificate come la statua della Madonna dell’Abbondanza, “Mamma Bella” per S. Pompilio, la statua di S. Lorenzo martire e il busto della Madonna Addolorata.

 

           S. Pompilio Maria Pirrotti

 Le tre statue sono appartenute alla famiglia gentilizia montecalvese dei Pirrotti, nella quale, il 29 settembre 1710, nasce Domenico Michele Giovan Battista, che, educato alla fede e alla virtù, nei progetti della famiglia, di cui già altri figli maschi, Pompilio, Francesco, Bartolomeo e Raffaele, si sono orientati verso una vita religiosa, è destinato a tramandare con onore il casato. Ma la vocazione, che lui avverte forte già da bambino, lo porta a compiere atti di penitenza e devozione che paiono straordinari. Spesso, anziché dormire a letto riposa sulla nuda terra o sul gradino dell’altare nella cappella di famiglia, sotto lo sguardo amorevole della Madonna. Qualche sera, si fa rinchiudere nella chiesa del Santissimo Corpo di Cristo e, pregando Gesù in Sacramento, si addormenta e riposa tranquillamente ai piedi dell’altare. Ai bambini suoi coetanei insegna il catechismo, ai poveri distribuisce la sua merenda e talvolta i propri abiti.

A sua madre, Orsola Bozzuti, un giorno affida un’immagine della Vergine, che ha trovato abbandonata in un deposito di vecchie cose di famiglia, e le raccomanda di conservarla, perché un giorno sarà collocata sull’altare dal quale celebrerà messa. Una profezia che si avvererà anni dopo.

Nel 1726 conosce un giovane religioso, P. Nicolò Maria Severino di S. Pietro degli Scolopi di Benevento, giunto a Montecalvo per predicare durante la Quaresima. Resta affascinato dalle sue parole. Gli si presenta e ottiene informazioni sull’Ordine, sul suo Fondatore e sulla missione. Apprende che è un Ordine povero, spesso discusso e già una volta soppresso. Decide di aderire ad esso, ma la famiglia e soprattutto il padre Girolamo, professore in Legge, osteggiano tale scelta. E così una notte, Domenico, che ha 16 anni, lascia loro un biglietto e fugge a Benevento, percorrendo a piedi circa 40 km, dove è ospitato dal fratello Raffaele nel convento di S. Domenico. I genitori lo raggiungono di lì a qualche giorno e si rassegnano alla sua decisione. Entra nell’Ordine delle Scuole Pie, diviene scolopio, sulle orme del fondatore S. Giuseppe Calasanzio, col nome di Padre Pompilio Maria di S. Nicolò. Il nome Pompilio è quello di suo fratello, deceduto nel 1719 a 18 anni, quando era chierico nel Seminario di Benevento.

Padre Pompilio Maria di S. Nicolò è educatore dei giovani per l’umano sapere, teologo, taumaturgo, mistico devoto del Sacro Cuore, dell’Eucaristia e della Madonna. E a un’immagine della Madonna, collocata nella casa paterna, lui si rivolge salutandola con devozione: “Ave Maria”. E lei gli risponde: “Ave Pompilio”.

La sua attività instancabile di evangelizzatore, educatore, predicatore e confessore lo porta a operare in molti luoghi e città d’Italia. Considerato dai superiori delle Scuole Pie di Roma uno dei migliori insegnanti dell’Istituto Scolopico in Italia, è nominato prima Prefetto delle Scuole a Napoli e successivamente docente di belle lettere a Turi, Francavilla, Ortona, Anzano, Chieti e Lanciano. I suoi scritti hanno un carattere essenzialmente ascetico e mistico. A Napoli, oltre che insegnante e maestro dei novizi, è Direttore dei Chierici dell’Ordine e successivamente, per volontà di re Carlo III Borbone, diviene Rettore del Collegio di Manfredonia (Fg) e poi Rettore a Campi Salentina (Le) e Assistente Provinciale.

È considerato grande evangelizzatore, “L’Apostolo degli Abruzzi”, “Miracoloso Santo di Napoli” e dialogatore con i morti. A Montecalvo, oltre che pregare con le Anime dei defunti nella chiesa del Purgatorio, s’intrattiene a dialogo coi suoi genitori sepolti nella chiesa del Santissimo Corpo di Cristo. Tuttavia, è accusato di essere troppo indulgente come confessore verso i peccatori. Fatto oggetto di persecuzioni, è sospeso dalle confessioni e re Carlo III, temendo qualche pericolo per il suo governo, lo bandisce da Napoli e dal Regno. È prelevato dalle guardie e mandato in esilio ad Ancona, da dove si sposta a Lugo dell’Emilia e poi a Ravenna, a Chioggia (Ve) e a Firenze. Così il suo apostolato, oltre che in queste città, si estende anche a Savignano, a Correggio e a S. Arcangelo di Romagna. Ma Napoli non può fare a meno del suo “Padre Santo”. Nel 1763, revocato da parte delle autorità il decreto dell’esilio, dopo quattro anni egli rientra finalmente a Napoli tra l’entusiasmo popolare, ospite nella Casa Scolopica di Caravaggio. E proprio il tanto fervore della gente, considerato pericoloso da parte dei superiori, gli arrecherà altri dispiaceri. Anche stavolta egli perdona le cattiverie e non oppone alcuna difesa. È di nuovo allontanato e inviato in Puglia, come Rettore del Collegio di Manfredonia. Ma anche qui la sua permanenza non dura e alla fine dell’anno è spedito ad Ancona. Nonostante tutte le sue peregrinazioni, rimane molto legato a Montecalvo.

Da sempre la sua alimentazione è rigorosa e frugale: alcuni chicchi di fave e un po’ di pane. Questo anche quando gli capita di essere ospite a pranzo, come quella volta che si trova seduto alla mensa dei Padri Agostiniani a Montecalvo e gli viene servito un piatto con due piccioni cotti. Non può accettare quel pasto. Leva gli occhi al cielo, accarezza i due volatili con la forchetta, pusàta, e questi, tornati in vita, volano via tra lo stupore dei presenti. Nel piatto rimasto vuoto, si materializzano alcuni chicchi di fave: il suo alimento abituale. Tuttavia, nonostante questa dieta, insostenibile per una persona normale, egli non si risparmia ed è molto esigente con se stesso. Mentre si consuma il pasto in comunità, legge le orazioni per alleviare i colleghi religiosi. La notte riposa poche ore, nonostante trascorra molto tempo accanto al letto degli infermi, per dar loro conforto, a confessare i fedeli o a predicare dal pulpito.

Desideroso di umiliazioni e patimenti personali, ringrazia Dio “del bel tesoro del santo patire”. Ancora da giovane, mortifica la carne indossando cilici e catenelle, dormendo al caldo o al freddo, predicando scalzo per impressionare i peccatori.

Il 30 marzo 1765, da Ancona è inviato a Campi Salentina (Le), dove vi è stata una gravissima carestia. Acclamato “Padre Santo”, oltre che per confessarsi la gente accorre perché affamata. Lui le dà conforto e non la manda via delusa. La sfama con pochi pezzi di pane, moltiplicandoli come aveva fatto Gesù nel deserto.

Ormai non gli resta molto da vivere su questa terra. Spira in estasi, nella sua cella di Campi Salentina, il 15 luglio del 1766, invocando “Mamma Bella”. È osannato dai fedeli per la sua santità e tutti desiderano ottenere sue reliquie.

Nel 1834 cominciano le pratiche per elevarlo alla gloria degli altari e il 26 gennaio 1890 Papa Leone XIII lo dichiara beato. Papa Pio XI lo canonizza il 14 marzo 1934 e, per la gioia dei fedeli, diviene S. Pompilio Maria Pirrotti.

A Campi Salentina, dove S. Pompilio si festeggia il 15 luglio, gli è dedicato un santuario, con annessi un museo e un liceo.

 

            I Distici di papa Leone XIII, il Palazzo Pirrotti, i terremoti, gli eventi…

I tre simulacri, dopo un delicato e meticoloso restauro, hanno recuperato buona parte dell’antico splendore e sono tornati, dopo l’oblio, alla devozione dei fedeli. Ma oltre alla suggestione collegata a questo inatteso ritorno, c’è un mistero che riguarda la cinquecentesca statua della Madonna dell’Abbondanza, rivelatosi proprio in sede di restauro: un teschio, ben riconoscibile, nella pupilla vitrea del suo occhio destro. La statua è ora esposta alla devozione dei fedeli nella rinascimentale Cappella Carafa, nella Chiesa Abbaziale di S. Maria Maggiore, la splendida Collegiata medievale a tre navate, che conserva ancora la struttura tardogotica del XV sec., situata in cima al centro storico montecalvese. Il casato dei Carafa ha dato alcuni cardinali alla città di Napoli nel XVI sec. e Giovan Pietro Carafa è papa dal 1555 al 1559, col nome di Paolo IV, oltre che zio di Sigismondo Carafa, primo conte di Montecalvo.

La chiesa è attaccata alla parte meridionale del Castello normanno, ex Castrum romano, da cui partono una sessantina di uomini armati per la Crociata, che, il 15 luglio 1099, porta alla conquista di Gerusalemme da parte dell’Europa cristiana (cfr. di G. B. M. Cavalletti, Montecalvo dalle pietre alla storia, pp. 15-20, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Pianodardine-Av 1987).

Sotto il castello, nel 1132 (cfr. di P. Aubé, Ruggero II Re di Sicilia, Calabria e Puglia. Un normanno nel medioevo, edito da Newton & Compton, Roma 2002), si accampa col suo esercito re Ruggero II, che proviene dalla Puglia, per affrontare nel territorio beneventano i suoi nemici: il cognato Rainulfo d’Alife e Roberto II, principe di Capua.

Nel 1496, sempre sotto il castello, si accampa re Carlo VIII di Francia, sceso nel Meridione con mire di conquista sul regno di Napoli. Uno degli scontri militari con Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli (cfr. di F. Guicciardini, Storia d’Italia, edita in tre vol. da Einaudi, Torino 1971), avviene proprio ai piedi del monte, tra Montecalvoli e Casalarbore, probabilmente dove è ora la stazione ferroviaria. In questi frangenti, le truppe francesi diffondono tra la popolazione meridionale la sifilide, detto il mal franzese. ‘Nfranzisàti sono i contagiati. La sifilide è arrivata in Europa dopo la scoperta dell’America avvenuta nel 1492, con il rientro degli equipaggi di Cristoforo Colombo.

Le altre due statue, ritrovate nel sottoscala, sono esposte nel museo.

A Papa Leone XIII, Mons. Pompilio Pirrotti, pronipote del santo, invia una lettera, datata 29 dicembre 1898, in cui comunica di avere allestito  e aperto al pubblico, nella stanza di nascita di S. Pompilio, ora inglobata nel percorso museale, un locale-reliquiario, in cui sono esposti l’oratorio di famiglia, l’altare in cui celebrò messa, il quadro col suo misterioso ritratto, le sue lettere ed altre “meravigliose reliquie”.

 

 

 

Rammentandogli di essere venuto a Montecalvo nel 1839, in qualità di Delegato apostolico della Provincia di Benevento, su incarico della Sacra Congregazione dei Riti e in compagnia del Cardinale Giovanni Battista Bussi, per i Processi apostolici sulla vita e sulle virtù eroiche di San Pompilio, in cui i testimoni confermarono che il Pirrotti dialogava con i teschi del Sacro Cimitero della Chiesa del Purgatorio recitando con loro il Santo Rosario come se fossero vivi, invoca un Distico, che aggiunga “maggior gloria al Beato Pompilio Pirrotti” e maggiormente si diffonda la sua devozione. Papa Leone XIII, che del Beato Pompilio è un estimatore devoto, non solo esaudisce quella richiesta, ma di Distici ne scrive addirittura quattro in latino. In realtà si tratta di un testo poetico di quattro strofe di diversa lunghezza, precedute da numeri latini, per un totale di 24 versi. Trattano della sua venuta a Montecalvo per ascoltare i testi, il cui esito è racchiuso nel verso ottavo: “Pompilio est superum post ea partus honor”, che, nella traduzione di padre Mauro Ricci, diventa: “Ond’ha Pompilio l’onor de’ Beati”. Proseguono elogiando i doni che il Beato Pompilio elargisce dal cielo e i fedeli sono invitati a seguirne l’esempio, perché, come ancora traduce il Ricci: “Dal Paradiso voi guarda sereno / Il Beato Pompilio / E tutto della sua patria il terreno”. E, sempre i fedeli, sono esortati ad essere degni della sua opera, perché Pompilio rifulge nel cielo come stella e illumina col suo fuoco le genti di ogni luogo.

Negli ultimi decenni del Novecento, dopo il crollo del palazzo, a causa del terremoto del 1930, e la costruzione della chiesa di S. Pompilio a partire dal 1934, la sala-reliquiario, che ha precorso il museo, è allestita al piano terra, a cui si accede dall’atrio, che, con il soffitto a vela e le pietre a vista, è la sola parte originale del palazzo non crollata e quindi non alterata dalle ricostruzioni, a seguito dei sismi disastrosi succedutisi nel tempo. È aperta ai fedeli nei giorni della festa del santo, che a Montecalvo si celebra il 20 agosto, e vi si può accedere anche di domenica, dopo la celebrazione della messa. Con l’inaugurazione del museo, questo locale viene destinato all’esposizione delle pubblicazioni e dei souvenir per i visitatori. L’architrave sulla sua porta reca incisi l’anno 1655, l’iscrizione araldica “NOBILIORA ALTIORA PETUNT – POTIUS MORI QUAM FEDARI” e sotto, in bassorilievo, lo stemma della famiglia Pirrotti, la cui presenza a Montecalvo data dal 1400. L’altro motto araldico della famiglia è: “HONOR ET VIRTUS IN DOMO PIRROTTI SEMPER”.

Il 15 luglio 2007 è presentata al pubblico la chiesa di S. Pompilio restaurata. La prima pietra per la sua costruzione fu collocata il 16 luglio 1934, dopo la rimozione dei ruderi di Palazzo Pirrotti, di cui era crollato il primo piano, a poca distanza da quelli della chiesa del Santissimo Corpo di Cristo e a un centinaio di metri da quelli del monastero di S. Caterina d’Alessandria.

Il terremoto del 1930 è terribile per Montecalvo, che conta 83 morti e subisce il crollo di circa il 90% di case e palazzi con il conseguente abbattimento di diverse chiese, tra cui le ultime due qui menzionate, che vengono spianate e mai più ricostruite. I genitori di S. Pompilio erano sepolti nella chiesa del Santissimo Corpo di Cristo. Il padre era deceduto nel 1750 e la madre nel 1756. Quest’ultima, la cui salma è ritrovata intatta unitamente agli abiti, è traslata al cimitero del paese e collocata nella tomba della famiglia Peluso, anch’essa ormai estintasi. Dov’era la chiesa del Santissimo Corpo di Cristo, ora vi è la piazza S. Pompilio Maria Pirrotti.

Il terremoto del 1962 comporta gravi danni per le abitazioni, al punto che il quartiere Trappeto è abbandonato da subito e cogli anni anche il centro storico.

Il terremoto del 1980 provoca danni non molto rilevanti per il paese.

Va detto che se i terremoti hanno distrutto palazzi, chiese e suppellettili, anche l’uomo vi ha contribuito con la sua incuria e superficialità. Esiste la chiesa di S. Gaetano da Thiene a Montecalvo, in via Dietro Corte, nei pressi del castello. Fu edificata nel 1653 dal barone Battimelli e in seguito lasciata in eredità alla famiglia Bozzuti, ramo materno di San Pompilio Maria Pirrotti. Anche per essa, il suo abbandono risale al terremoto dell’agosto 1962. Il sisma ne intaccò l’integrità. L’uomo ne ha poi azzerato l’identità di chiesa e l’inviolabilità di luogo sacro. Per anni ne è stato fatto scempio, attraverso un uso dissacrante e vergognoso. Si è consentito di adoperarla come stalla, dimora d’asini e capre, d’imbrattarla di sterco.

E i conigli intanto scavavano tane sotto l’altare. Una chiesa senza voce, con dei morti senza diritti, anche se parenti del Santo, come capita ai diseredati di questa terra. Per l’estate 2001 si era ipotizzata l’apertura della sua cripta, per l’ispezione e lo studio di quanto in essa contenuto, da parte di Lucia Portoghesi, archeologa e fondatrice del museo di Altavilla Irpina, nonché esperta di tessuti antichi, che mi chiese una collaborazione. Poi non se ne fece nulla, come spesso succede al Sud. Ma la cripta è sempre lì, probabilmente intatta. Fino a che non crolla il pavimento.

Il Palazzo Pirrotti era dotato di una grande cantina sottostante, scavata nell’arenaria, che affaccia fuori le mura quattrocentesche del paese, in via Lungara Fossi, dove si trova ancora l’ospedale di S. Caterina d’Alessandria del XIII secolo, che ospitava viandanti, commercianti e pellegrini che si recavano a Brindisi, seguendo la via Appia-Traiana, per imbarcarsi per Gerusalemme. Nella cantina Pirrotti si conservano un palmento del 1700, palimiéntu, grossa vasca in muratura in cui si faceva fermentare il mosto, ancora in buono stato, e i resti delle antiche travi su cui erano collocate le grosse botti di legno col vino.

Oltre a comunicare col palazzo, tramite un passaggio ipogeo con scale scavate nell’arenaria, si raccontava che vi sboccasse un tunnel, forse una via di fuga dal Castello, e un altro vi si diramasse verso la fontana della Terra, a meno di un chilometro di distanza.

La famiglia Pirrotti, relativamente al ramo maschile, si estingue con la morte di Mons. Pompilio Pirrotti fu Michele (il richiedente del Distico a Papa Leone XIII), deceduto il 10 marzo 1919, e il palazzo è diviso tra gli eredi di parte femminile: due terzi a Mariannina De Cillis e alle figlie Giulia e Angelina Susanna; un terzo alla famiglia Mazara, passato poi a Vittorio Veraldi e a suo figlio.

A seguito di due R. D., il n. 1370 del 29 agosto 1920 e il n. 2219 del 21 settembre 1938, a firma del Re d’Italia ed Imperatore d’Etiopia Vittorio Emanuele III, nasce un ente morale col nome “Ente Scolastico Rosa Cristini”, in attuazione di un testamento rogato davanti al notaio il 2 luglio 1880 e avente come oggetto un lascito della benefattrice Rosa Cristini, analfabeta. Lo scopo di questa donazione è di estendere l’istruzione elementare anche alle bambine eliminando la discriminazione che subiscono da sempre rispetto ai maschi, ma non si sa dove costruire l’edificio, affinché l’Ente possa attuare il testamento.

Nel 1934, dopo la canonizzazione di S. Pompilio, la signora Mariannina De Cillis e le figlie decidono di donare la parte del Palazzo Pirrotti di loro proprietà, che è crollata col terremoto del 1930. Rimosse le macerie, sul suolo ricavato sono edificati l’edificio per l’Ente “Rosa Cristini”, in cui funzioneranno per alcuni decenni l’asilo infantile e un laboratorio di ricamo per le ragazze del paese gestiti dalle Suore Calasanziane dell’Ordine delle Scuole Pie, la chiesa di S. Pompilio, la sagrestia e il reliquiario. Queste tre ultime strutture sono donate successivamente alla parrocchia di S. Bartolomeo Apostolo.

Nel 1969 l’Ente “Rosa Cristini” acquista, dalla famiglia Veraldi, la parte rimanente del Palazzo Pirrotti, che è quella in cui è allestito il museo e la cui facciata viene ripristinata a come era prima del 1930.

Il 25 dicembre 1999 sono unificate le parrocchie montecalvesi di S. Bartolomeo Apostolo e di S. Nicola. Da esse nasce la Parrocchia di S. Pompilio Maria Pirrotti, le cui attività sono proiettate verso le grandi celebrazioni del 2010, anno in cui ricorre il terzo centenario della nascita del santo.

            Il Museo

 Il parroco don Teodoro Rapuano, che da qualche anno è diventato abate, è arrivato a Montecalvo il 3 settembre 1999. Grazie alla sua fervida attività e alle numerose iniziative, è riuscito a circondarsi di un nutrito gruppo di volontari, giovani e meno giovani, che collaborano senza nulla chiedere in cambio, e con la sua opera ha posto un freno al declino del paese, che pareva inarrestabile e perdurava dal terremoto del 1962. Di certo, il centro storico non ha ripreso a brulicare di vita, ma la speranza è che le sue iniziative, che nuova linfa e fiducia stanno infondendo nei Montecalvesi residenti e in quelli emigrati, unitamente al restauro in atto del Castello normanno e alla ricostruzione del Palazzo ducale, a cura della Soprintendenza di Salerno e Avellino, possano determinare per davvero una definitiva inversione di rotta.

La cerimonia per l’inaugurazione del museo prende il via alle ore 18 con i discorsi di don Teodoro Rapuano, parroco e Presidente della Fondazione “Rosa Cristini”, e del sindaco di Montecalvo Giancarlo Di Rubbo. Alle 18,30, inizia la Solenne Concelebrazione Eucaristica sul sagrato della cappella del Santo, del Santuario di Mamma Bella dell’Abbondanza e S. Pompilio, alla presenza di numerosi fedeli accorsi per l’occasione. Sono presenti, come graditi ospiti: il Molto Rev.do Padre Dante Sarti delle Scuole Pie, Provinciale della Provincia Italiana dei Padri Scolopi; il Molto Rev.do Padre Sabino Iannuzzi ofm, Provinciale della Provincia Sannito-Irpina dei Frati Minori; Padre Franco Pepe, guardiano del convento di S. Antonio di Montecalvo; Padre Sesto Pieroni, Responsabile Nazionale Vocazionale Provincia Italiana delle Scuole Pie; Padre Lorenzo Mastrocinque, Rettore del Santuario Regina della Pace in C/da Malvizza; Padre Martino Gaudioso, Rettore della Comunità delle Scuole Pie di Frascati; Mons. Pasquale Maria Mainolfi, Direttore dell’Istituto di Scienze Religiose “Redemptor hominis” di Benevento e del periodico Disputationes Pompilianae; Don Luigi Verzaro e don Biagio Corleone, sacerdoti nativi di Montecalvo; Suor Isolina Meoli e suor Maria Sarnataro, Suore della Sacra Famiglia di Spoleto; Dott. Giuseppe Muollo della Soprintendenza di Salerno e Avellino; Tufo Sabato, Maresciallo dei Carabinieri; i rappresentanti del Corpo dei Vigili urbani; Pompilio Albanese, Presidente della Pro-Loco; Dott. Achille Mottola, Presidente del Conservatorio di Benevento; il prof. Davide Nava; i signori Alberto De Lillo, Leonardo Pappano, Antonio D’Agostino e Gennaro Pallavanti, in qualità di Consiglieri della Fondazione “Rosa Cristini”.

Il Molto Rev.do Padre Dante Sarti, che presiede la cerimonia religiosa, inizia l’omelia. Parla di S. Pompilio, dell’accoglienza riservatagli da parte dei fedeli montecalvesi e la voce improvvisamente gli si strozza in gola. Fa fatica a proseguire. Poi si riprende. Alla fine si scuserà con tutti e confida che, ammirare i luoghi e la casa, in cui il Santo vide la luce e visse da giovane, gli ha trasmesso un’emozione indicibile.

Terminata la messa, gli ospiti si portano verso il portone d’ingresso del museo, dove è allestito un palco e sopra di esso un tavolo, su cui è collocato un grosso libro, predisposto dal Consiglio d’amministrazione della Fondazione “Rosa Cristini”, che contiene il Verbale manoscritto dell’istituzione del Museo. Il Molto Rev.do Padre Dante Sarti si posiziona davanti al portone chiuso del Palazzo e dà tre colpi secchi col picchiotto, tòzzilapurtóne, che è ancora quello originale di casa Pirrotti.

Dall’interno gli viene aperto solennemente il portone, che immette nell’atrio. Dopodiché gli ospiti, le autorità presenti e le maestranze, che hanno contribuito alla realizzazione e all’allestimento dell’opera, sono invitati a salire sul palco, dove si costituiscono in Comitato d’Onore. Don Teodoro Rapuano legge l’attacco del Verbale: “Oggi, il giorno 17 del mese di luglio dell’anno 2008, essendo Pontefice della Chiesa Universale il Papa Benedetto XVI e Presidente della Repubblica Italiana l’Eccellentissimo Giorgio Napoletano, il popolo montecalvese si è riunito in festosa assemblea dinanzi all’avito Palazzo Pirrotti, per l’auspicata e attesa riapertura della struttura museale, già fondata nel 1889 da Mons. Pompilio Pirrotti, Cappellano Domestico di Sua Santità, Parroco di Montecalvo e Pronipote dell’illustre concittadino San Pompilio Maria Pirrotti dSP… Il costituito Comitato dà atto della riapertura della nuova struttura, a cui la pietà popolare dà il nome di Museo della Religiosità Montecalvese e della Memoria Pompiliana”.

I componenti del Comitato firmano il verbale e finalmente si può accedere nell’atrio del Palazzo Pirrotti, dove a sinistra vi sono l’accesso al locale d’esposizione delle pubblicazioni e dei souvenir e la biglietteria, mentre a destra vi è l’ingresso per il museo.

Al museo si accede gratuitamente, ma a tutti viene consegnato il biglietto. E così sarà con i futuri visitatori. Al Molto Rev.do Padre Dante Sarti è consegnato, a ricordo dell’evento, il biglietto N. 1, incorniciato e con vetro.

Tutti possono salire al primo piano e riversarsi nel percorso museale. Finalmente, dopo anni di attesa, verrebbe da esclamare: “Eccolo qui, il nostro museo in carne, ossa e spirito!”. Don Teodoro l’aveva promesso e ha lavorato alacremente, come tutti, più di tutti, facendo pure il manovale, quand’era necessario. L’ha fatto per Mamma Bella e per S. Pompilio. Ma anche per i Montecalvesi, per gli emigranti e per chi non c’è più: gli scomparsi in questi ultimi anni e i nostri avi.

Vi sono state offerte e contributi da parte dei fedeli. Oltre ai volontari, delle ditte hanno collaborato, talvolta gratuitamente, nella ristrutturazione di Palazzo Pirrotti per renderlo idoneo ad accogliere il museo. In questo modo si è potuto ovviare alla mancata assegnazione di fondi, da parte degli enti locali ai vari livelli istituzionali. E con un esempio così sotto gli occhi, gli altri, volontari e non, la fatica non l’avvertivano. Perché sapevano di lavorare a un progetto importante. Un progetto per la comunità, che ora è offerto ai visitatori, che nelle vetrine affollate di oggetti, documenti e paramenti sacri possono riscoprire le proprie radici, rivivendo qualche scampolo di ricordi personali o qualche racconto degli anziani dialettofoni. E poi, a parlare di S. Pompilio, della sua storia e del suo errare per l’Italia, non necessariamente ci si ferma a lui e al suo secolo, il Settecento, ma si possono scoprire spezzoni di storia importanti dei secoli precedenti, che i terremoti parevano aver sepolto per sempre sotto le macerie di palazzi, chiese, vicoli e umili casette.

L’unificazione delle parrocchie montecalvesi ha consentito di esporre nel museo anche oggetti, che non riguardano direttamente S. Pompilio, perché si è voluto ampliare l’orizzonte, facendo in modo che sia rappresentata la religiosità complessiva del popolo montecalvese. E così si possono ammirare oggetti appartenuti alla ex Collegiata di S. Maria e i tanti gioielli offerti per voto o grazie ricevute alla Madonna della Libera o del Carmine della parrocchia di S. Nicola.

Resta qualche rimpianto: chissà quanti altri oggetti e materiali importanti sono andati perduti! Di alcuni di essi si ritiene che siano stati trafugati o spariti inspiegabilmente. Ciò che si è salvato, lo si deve all’attenzione e alla lungimiranza di alcune persone oneste e sensibili. E una di loro è certamente Ludovico Lo Casale (1929-2006). Per decenni ha avuto cura e ha custodito amorevolmente gli oggetti riferibili a S. Pompilio, che oggi si possono ammirare nel museo.

Degli oltre 450 oggetti catalogati dalla Soprintendenza, solo una parte è attualmente in mostra. Quel che è nelle casse del magazzino potrebbe essere reso visibile in futuro, programmando una rotazione degli oggetti da esporre. Così potrebbero trovare posto anche i parati in velluto che Papa Benedetto XIII inviò come dono alla Collegiata di Santa Maria nel 1724, che riportano ricamate la dedica “Pro Montecalvo A. D. 1724” e le insegne papali. Come cardinale Orsini, quand’era arcivescovo di Benevento, aveva fatto numerose visite a Montecalvo e alla collegiata di S. Maria.

Nelle vetrine, nelle teche e lungo il percorso museale, per come è allestito attualmente, si può ammirare quanto segue: una bella statua lignea policroma dell’Immacolata Concezione del XVIII sec.; tre ostensori in argento, di cui due del XVIII sec. e uno del XIX sec.; la pergamena con l’Autentica del Sacro Corpo di S. Felice martire, patrono di Montecalvo, la cui urna con le ossa è nella Chiesa Abbaziale di S. Maria Maggiore e fu dono nel 1673 di papa Clemente X a Carlo Pignatelli, duca di Montecalvo; tantissimi gioielli antichi in oro di 18 o 14 carati (questi erano detti d’oro rosso per l’alto contenuto in rame ed erano indossati nei giorni feriali), come orecchini, parure, collane, anelli, bracciali, spille, crocifissi, pendagli, amuleti, orologi da tasca in argento e preziosi in corallo rosso; oggetti in argento come calici, turiboli, secchielli, medaglioni e portareliquie; tre corone di statue della Madonna, pissidi, palmatorii e i reperti da me personalmente rinvenuti negli anni alla Costa della Mènola: otto monete del 1700, coniate sotto i re Borbone Carlo III e Ferdinando IV, 26 medaglie sacre di vari secoli e un crocifisso; la pala d’altare con Madonna con Bambino e Santi, dipinto su tavola della seconda metà del Sec. XVI di Girolamo Imparato; la vetrata policroma con sei scene e miracoli della vita di S. Pompilio; le statue di Madonna con Bambino e di una figura femminile con abiti ottocenteschi; la statua di S. Lorenzo martire rinvenuta nel sottoscala del palazzo; tre tovaglie ricamate per altare; tre piviali, di cui uno del 1855, e l’abbigliamento completo da cerimonia religiosa solenne, con pastorale, stole, mitria, calze, scarpe, brocca e bacile dell’abate della collegiata di S. Maria; il Manto della Madonna della Libera, sec. XIX-XX, ricco di ori, pietre dure e preziose, con i vari suoi elementi in stoffa e tanti gioielli come vaghi in oro e in argento, collane, orecchini, bracciali e spille in oro, che venivano donati e attaccati al suo mantello in occasione delle processioni, come segno di grande devozione popolare; tantissimi vaghi d’argento a forma di cono svasato, bittùni, che appaiati, per un numero complessivo da 8 a 16, e ciascuno con un anello oblungo, costituivano la bittunéra, che le donne portavano sul petto attaccata al corpetto, cammisóla, di solito di colore blu o amaranto; cannàcche, collane femminili con vaghi di corallo, conchiglie o pietre dure; una serie di sculture costituita da alcuni Bambinelli, il busto dell’Addolorata rinvenuto nel sottoscala del palazzo, un crocifisso, una statua dell’Addolorata a figura intera, una figura femminile e una piccola statua di S. Pompilio; due turiboli e un libro per i panegirici sacri; il quadro col misterioso ritratto di S. Pompilio; il Decretum di beatificazione e canonizzazione di S. Pompilio; il testo della lettera di Mons. Pompilio Pirrotti a Papa Leone XIII seguita dai Distici; l’altare in legno dipinto di casa Pirrotti; il confessionale in legno di ciliegio del Settecento, da poco restaurato, in uso nella chiesa del Santissimo Corpo di Cristo e in cui confessava S. Pompilio; una composizione di coralli, conchiglie e madreperle con crocifisso sotto una campana di vetro; diverse lettere di S. Pompilio e le pergamene con i Distici; diversi quadri esposti ai muri. La pianeta di S. Pompilio, attualmente in restauro, tornerà nella sua teca che l’attende nel museo.

Se mi toccasse stilare una graduatoria d’importanza tra gli oggetti esposti, ai primi tre posti metterei: il misterioso ritratto di S. Pompilio, i Distici e il manto della Madonna della Libera.

Oltre a gioielli particolari, come collane cu li ccòchili o li ssignàculi, vaghi in oro, vi sono diversi amuleti d’oro: un ferro di cavallo, cornetti di varie dimensioni, curniciéddri, e un paio di manine che fanno le corna. Tutti con funzione apotropaica, contro la malasorte, l’invidia e il malocchio. Le contadine amavano portare lu curniciéddru appeso alla catenina d’oro al collo, ‘nfacci’a lu lacciu, e per questo si attiravano talvolta gli strali del predicatore durante la messa. Ma pure le medagliette sacre, se cucite sui grembiulini, li cacciamàni, indossati dai bambini, avevano una funzione apotropaica contro il maligno. Non sono stati riscontrati, tra i gioielli in uso a Montecalvo, amuleti fallici d’oro o di corallo di chiara ascendenza romana, anch’essi con funzione apotropaica, com’era nei costumi di altre aree geografiche italiane, come ad esempio quella trentina.

Tra i tanti orecchini esposti, spiccano li sciacquàgli, costituiti da un grande cerchio con uno o tre lunghi pindindì, pendentif, ciascuno con una piccola sfera d’oro, e altri grandi orecchini a forma di rombo irregolare, alcuni dei quali con decorazioni barocche, pietre dure, brillantini e frangia in fili d’oro, detti auricchjìn’a ppacchi di péra. Il termine sciacquàglia, che indica pure il bargiglio di capre, pecore e polli, ha ispirato nell’Ottocento un soprannome, che si è tramandato poi, a seconda delle famiglie, con tre varianti: Sciacquàglia, Sciacquaglìnu e Sciacquaglióne. Un altro soprannome legato ai gioielli era quello attribuito all’orefice Santosuosso, per via della sua professione, don Andòniju l’Aréfici, che, dalla fine dell’Ottocento e sino a metà Novecento, ha orientato o assecondato i gusti dei compaesani nell’acquisto dei preziosi. È probabile che molti degli ori esposti li abbia venduti lui o gli orefici di Ariano Irpino, dove vi era più possibilità di scelta.

Questi gioielli sono in genere prodotti dell’oreficeria napoletana e rappresentano un campionario di preziosi straordinario, con cui si agghindavano in passato le donne montecalvesi e quelle di altri paesi meridionali. Quanti stenti e sudori per acquistarli! Si può immaginare la vita umile della gente e i sacrifici per potersi permettere con grande orgoglio questi oggetti, che erano veri e propri veicoli dello status simbol. Erano doni di scambio tra i promessi sposi in occasione del fidanzamento ufficiale, quannu si cumbinàva, quando si dava parola davanti al sindaco, si spusàv’a lu sìnnicu, e quando ci si sposava in chiesa cu l’àbitu jancu, che in passato potevano indossare solo le ragazze illibate, mentre era negato a chi aveva fatto la fuga d’amore col fidanzato. Si ricevevano in regalo gioielli anche dai parenti ca èrnu di salivijèttu, invitati al matrimonio, spusalìziju, e dai compari in caso di battesimo o cresima. Si acquisivano pure con la spartizione dell’eredità. I gioielli facevano parte del patrimonio di famiglia ed erano esibiti in occasione delle feste del paese e di quelle familiari. Di qualche contadina, che in tali occasioni amava coprirsi d’oro, si ‘nciancianàva, si ammiccava “ca paréva la Madònna ‘la Lìbira”. I gioielli per uomo avevano una varietà limitata.

 

 

 

 

 

In questi giorni, dopo l’inaugurazione del museo montecalvese, ho avuto modo di rivisitare dopo anni il museo del Duomo di Napoli col Tesoro di S. Gennaro, che dà un’impressione di regalità, anche per via dei locali affrescati della sacrestia, inseriti nel suo percorso. Ebbene, nei giorni successivi mi sono ritrovato a fare questa riflessione. Se il museo napoletano contiene tanti oggetti straordinari, tra cui diversi busti di santi in argento a grandezza più che naturale, veri capolavori dell’arte orafa e scultorea napoletana, offerti in passato da reali, aristocratici e prelati, che, se per assurdo fossero immessi sul mercato, avrebbero ciascuno un’elevata quotazione commerciale, il museo montecalvese, a un occhio superficiale, potrebbe apparire come un piccolo museo popolare. Se il primo, attraverso il sacro, induce a ripercorrere la storia che è scritta nei libri, il secondo pone, sempre attraverso il sacro, una questione etno-antropologica mai sufficientemente indagata, che ci riporta il passato umile del popolo dei fedeli, attore principale della civiltà contadina con tutto il suo patrimonio culturale immateriale. Quindi, due musei incomparabili, di due mondi lontani tra loro anni luce: uno nella ex capitale del regno, l’altro in un paese sperduto sull’Appennino campano nord-orientale. Eppure, ciascuno, a suo modo, rappresenta il sacro, come due facce, una magniloquente e aristocratica, l’altra semplice e devota, della stessa medaglia. Insomma, le vie del sacro, come quelle della fede, sono infinite.

Va dato atto a don Teodoro Rapuano che la fede, il volontariato di molti e l’ottimismo di pochi contribuiscono al successo delle idee, nonostante le infinite difficoltà. E ciò è una prova di eroicità. Questo museo, come lui afferma con convinzione, non è un luogo morto, ma un ambiente vivo, soprattutto in senso spirituale, in cui il passato ritorna con alcuni eventi e oggetti d’uso quotidiano, documenti e oggetti sacri e devozionali, cui erano legati i riti religiosi e l’esistenza dei nostri avi col proprio immaginario collettivo. In questo modo esso non solo li fa rivivere – memoria preziosa, visibile e tangibile, oltre il valore venale degli ori esposti –, ma diviene pure luogo di catechesi per i fedeli di oggi, quando avvertono l’urgenza di dedicargli una visita.

(Questo articolo, redatto per il CorriereQuotidiano dell’Irpinia, è nel sito www.angelosiciliano.com. Notizie su S. Pompilio Maria Pirrotti e sul Museo della Religiosità Montecalvese e della Memoria Pompiliana possono essere acquisite nel sito www.sanpompilio.it).

Krotone, 10 agosto 2008                                                                                                                       Angelo Siciliano