Il Patriarcato a Montecalvo Irpino

L'amore, il matrimonio e la gestione dei rapporti sentimentali nella società patriarcale irpina.
Contrarre matrimonio significava legarsi per tutta la vita

Corteggiamento e amore nel mondo contadino arcaico

Per gli animali l’accoppiamento risponde a impulsi istintivi, quali l’attrazione verso il partner e l’esigenza naturale di dover tramandare la specie. Vi è indubbiamente un aspetto chimico, dovuto ai feromoni, ma conta pure quello estetico. Nel senso che un maschio in buona salute e di ottimo aspetto, capace di sbaragliare la concorrenza maschile, conquista la femmina per tramandare i propri geni alla discendenza.
Per gli umani, conta sì l’attrazione fisica ma è quasi nulla quella chimica. Comunque, c’è qualcosa di molto importante che agli animali non è dato conoscere: l’amore, inteso come sentimento e non soltanto come sesso. E poi c’è un altro aspetto fondamentale: il sesso tra gli umani, oltre che per la finalità di procreare, è praticato nelle diverse stagioni della vita per il godimento che esso procura. Tra l’altro oggi, col Viagra, per i maschi in età avanzata, questo piacere s’è dilatato nel tempo, al punto da diventare per alcuni una vera e propria “dipendenza”.
L’amore, anche nella società contadina arcaica, era prima di tutto un sentimento. A volte si poteva far ricorso a fatture d’amore e a filtri magici, ma in genere ci si innamorava come può succedere oggi, seguendo le tappe dell’attrazione, dell’innamoramento e del corteggiamento. Solo che oggi i modelli sono cambiati. Dopo il cinema, la tivù dei reality, i media dei gossip e poi il web e i social network hanno contribuito a modificare il nostro costume e la morale, sull’onda di quanto avevano già prodotto il Sessantotto e il femminismo. Insomma, non è più uno scandalo se è una ragazza a proporsi al maschio. Ed è normale se due giovani se ne vanno a convivere o contraggano matrimonio solo civilmente. In passato era d’obbligo il matrimonio religioso, che legava per tutta la vita, e, se ci si separava, fino al 1970 in Italia non esisteva il divorzio. Con tutte le complicazioni che ciò poteva comportare.
I luoghi e le occasioni d’incontro per i giovani contadini erano le fontane, dove le ragazze andavano a fare la provvista d’acqua (andó li ffiglióli jévun’a l’acqua) per la famiglia, o a fare il bucato (a llavà e a ppassà li panni), i lavori agricoli come semina, mietitura e trebbiatura (sémmina, mititùra e scógna) per moltitudini di braccianti presso i massari, i mercati settimanali, le fiere, le feste religiose di paese, i pellegrinaggi e le feste di famiglia in occasione di matrimoni, battesimi, comunioni e cresime.
Anche i balli sull’aia, certe sere d’estate dopo la trebbiatura, al chiarore delle lampade ad acetilene (li ccitalèni cu lu cabùrru) legate ai pali, servivano come diversivo al duro lavoro nei campi, oltre che per il divertimento e la socializzazione dei giovani.
Fu una sorpresa, per me, scoprire che anche in Irpinia esisteva la tradizione del filò nelle masserie. Un modo di socializzazione, molto diffuso nelle cascine del Nord Italia. Nelle sere d’inverno, le famiglie del vicinato si riunivano nella parte pulita e asciutta della stalla, in cui vi erano vacche e giumente, e raccontavano cunti, aneddoti e fatti di cronaca paesani o nazionali. Tra i ragazzi si facevano scherzi e giochi di società. Una scena, questa, rappresentata molto bene da Ermanno Olmi, nel suo film L’albero degli zoccoli.
Qualche ragazza in età da marito, per la quale non si faceva avanti alcun pretendente, si recava al mercato sotto braccio con la madre o con qualche zia per “mostrarsi”, e i pettegoli (li ‘ntricchjiéri) insinuavano che portavano a vendere la giovenca (pòrtun’a bbénne la jènca). Di qualche altra si spettegolava che non era piazzabile, perché sgualdrinetta (nn’éja vinnìbuli, ‘ddrà canzarréddra), oppure insinuavano che per maritarsi, dovevano costruire una chiesa nuova (pi si mmarità quéddra, hanna fa la chjiésija nóva).
L’amore è un sentimento libero, ma nella società contadina non sempre era così. In tanti casi era un sentimento “obbligato”, nel senso che ci si doveva innamorare seguendo un percorso che non aveva alternative o quando queste, per opportune valutazioni dei familiari, non erano convenienti. Ciò succedeva quando il fidanzamento era combinato, tra un maschio che era in età da matrimonio (l’ómu ca s’éva ‘nzurà) e una ragazza in età da marito (la figlióla ca s’éva mmarità).
In una comunità non alfabetizzata come quella contadina, le ragazze, superata l’età puberale, erano pronte per essere date in sposa e mettere al mondo una numerosa prole. Quasi fossero delle fattrici. In alternativa, superati i 25-30 anni senza aver trovato marito, le donne scartate (li scartuléddre) erano “accantonate” come vecchie zitelle (ziti vècchje).
A volte, era l’innamorato a dichiarare formalmente il proprio amore alla ragazza adocchiata (“Ti vuo’ métt’a ffà l’amore cu mme?”). Altre volte le proposte di fidanzamento potevano essere avanzate dai genitori del maschio alla famiglia della ragazza, o, su delega, da ambasciatori (mmasciatùri), sensali (zanzàni), compari, parenti o amici di famiglia. Il portatore della richiesta, quasi a scusarsi, dichiarava: “Mmasciatóre nun pava péna! (Ambasciatore non paga pena!)”. Naturalmente, lui elencava pregi e qualità del giovane, della famiglia d’appartenenza e le allettanti condizioni patrimoniali. Insomma, si trattava di un buon partito da non sottovalutare.
Comunque, mai la famiglia di una ragazza avrebbe potuto inviare un’ambasciata (na mmasciàta) alla famiglia di un maschio! Si trattava di un tabù consolidato nei secoli.
Le giovani contadine, che non trovavano marito nel proprio paese, perché non più illibate, o perché vittime di pregiudizi e maldicenze, avevano una sola speranza: maritarsi con qualche vedovo o separato di fatto, o con uomini di qualche paese vicino (frustiéri). In questo caso si mettevano in moto i sensali di matrimoni che, in cambio di adeguato compenso, concludevano una sorta di “tratta delle mogli”. D’altronde, non esistevano ancora le agenzie matrimoniali. E c’è da aggiungere che raramente i matrimoni di questo tipo fallivano. Forse, dato che entrambi i contraenti avevano fatto fatica ad accasarsi, erano preparati a superare incomprensioni reciproche e divergenze caratteriali.
Anche nel mondo contadino, poteva capitare che una ragazza avesse più corteggiatori. Se lei era libera di scegliere chi volesse, lo faceva tenendo conto dell’aspetto fisico, della simpatia personale, della fiducia che le ispirava, della loquacità, della considerazione che aveva di lui la gente e, in qualche caso, anche delle sue capacità canore. Sino a inizio Novecento, infatti, di sera i giovani spasimanti organizzavano delle serenate sotto le finestre delle amate, con o senza l’accompagnamento di strumenti musicali come organetto o chitarra.
L’innamorato, se non era capace di cantare o suonare uno strumento, assoldava qualche amico o conoscente, che si faceva carico di suonare e cantare la serenata d’amore, sotto la finestra della ragazza agognata. Se la cosa non era di gradimento, il gruppetto poteva beccarsi un secchio d’acqua in testa dalla finestra, da cui si sarebbe dovuta affacciare la corteggiata. E, in questo caso, la cosa finiva tra proteste, ilarità, schiamazzi e improperi.
A Montecalvo, ho potuto accertare che esisteva un solo canto come serenata, con diverse varianti.
Talvolta, tra i giovani spasimanti per una stessa ragazza, si potevano accendere dispute con canti a dispetto. In un caso del genere, nella prima metà del Novecento, si consumò in paese un omicidio da parte di uno dei due contendenti, che colpì il rivale alla testa con una roncola (pitatùru). La cosa impressionò tanto la gente, che ancora oggi se ne ha memoria, nonostante che siano tutti scomparsi, compresa la ragazza che sarebbe andata poi in sposa a un giovane diverso dai due contendenti.
Se la ragazza era “consigliata” (cusigliàta) da familiari e parenti, erano importanti l’appartenenza familiare del giovane e le sue condizioni economiche, la sua moralità e la reputazione di cui godeva come lavoratore, fondamentale per il mantenimento della famiglia che si andava a creare.
L’istruzione dei giovani maschi nel mondo contadino spettava alle madri. Era la madre a “iniziare” il figlio su come scegliersi una moglie, di quale famiglia d’appartenenza dovesse essere e a quale tipo di donna dare la preferenza. Le ragazze belle e grasse (bèlle, ciòttili ciòttili) erano molto gettonate, perché c’era la credenza che la pinguedine (rassìja) fosse sinonimo di salute, che permettesse alla persona di superare brillantemente i periodi di carestia. Evidentemente sarebbero dovuti passare molti decenni, perché l’obesità fosse considerata alla stregua di una patologia seria da non sottovalutare.
Una madre saggia, ma anche esigente ed egoista, ci teneva molto a che il figlio si accasasse con una ragazza di suo gradimento. E, dato che nel patriarcato era consuetudine che il primo figlio maschio si sistemasse nella casa dei genitori, dove portava a vivere con sé la moglie, e si stava tutti insieme con la prole che sarebbe venuta costituendo un vero e proprio clan, la cosa non riguardava solo l’avvenire del figlio ma, dato che non vi erano ospizi o case di riposo per anziani a quei tempi, anche la sorte dei genitori, una volta diventati vecchi, senza pensione e non più autosufficienti.
Era la madre a farsi carico di questa incombenza, perché il padre, di solito, non aveva né tempo né gli strumenti dialettici per questioni di questo tipo, e, da padre-padrone, assumeva spesso atteggiamenti arroganti e rudezza di modi. Era la madre a mettere in guardia il figlio da ragazze di facili costumi (Si ti mitt’attuórnu na cacciunèddra, ‘n ti la spìzzichi chjù!). Per la madre, tra l’altro, era importante acquisire una nuora di buoni costumi, rispettosa, servizievole e dialogante. Possibilmente sottomessa, in modo che non avrebbe reso la vita difficile ai nuovi parenti acquisiti col matrimonio.
Contava il divario d’età tra lui e lei, che mediamente doveva aggirarsi sui quattro-sei anni, perché il maschio avesse qualcosa del senso paterno. Se la differenza d’età era maggiore, il maschio, scherzando, diceva: “Mi l’agghju crisciùt’a la man’a la mani! ( Me la sono allevata pian piano!)”.
Naturalmente era compito della madre addestrare anche la figlia, istruendola su come “accalappiare” un ragazzo (nu uaglióne) e non farselo scappare, e poi sull’arte di essere moglie e come gestire la casa e la prole, tenendo in piedi il rapporto coniugale. Anche a costo di sopportare le angherie, cui il consorte avrebbe potuto sottoporla. Cosa, questa, impensabile ai tempi attuali: in casi del genere si incorre nel reato di stalking.
La téne ricilàta com’a na rasta di masinicója! (La tiene riguardata come una pianta di basilico!)” dicevano di qualche madre, che stravedeva per sua figlia e le impediva ogni contatto con gli estranei, perché i pregiudizi dei compaesani non ne compromettessero la reputazione, in vista di un fidanzamento per un matrimonio conveniente.

                                                     

Nel mondo feudale dei secoli passati, vigeva il patriarcato: il maschio tutto dominava e disponeva. Tuttavia, in non pochi nuclei familiari succedeva che, dietro le quinte, era la donna a tirare le fila del comando e a orientare le decisioni del patriarca.
È notorio che vi erano contadini che vivevano in campagna (pi ffóre), abitando in casolari, casini o masserie, e contadini che vivevano in paese. Costoro, ogni mattina, lasciavano le proprie case e si recavano con l’asino a lavorare nei campi, per rientrare la sera. I primi venivano in paese raramente per delle commissioni, o ai mercati e alle feste. Avevano di solito un comportamento trogloditico, non dissimile da quello dei pastori e boari abituali (picuràli e gualàni), e per questo erano considerati individui grossolani (zacquàli di fóre). I secondi, invece, vivendo a contatto di borghesi e artigiani, anche per una sorta di imitazione, tenevano un comportamento personale più civile. E questa differenza di cultura tra i contadini si rifletteva, inevitabilmente, anche nel comportamento dei maschi verso le donne.
Di solito, due ragazzi che si innamoravano, all’inizio erano fidanzati di nascosto (facévunu l’amore ‘nnascùsi). Poi, una volta che il ragazzo si presentava in casa dell’innamorata, il fidanzamento era ufficiale. A questo punto, le due famiglie fissavano il giorno in cui combinare le nozze (si jév’a ccumbinà).
Nel giorno concordato tra le parti, a casa della ragazza, dove oltre ai genitori erano presenti anche zii, nonni e altri parenti, convenivano il fidanzato e i suoi parenti stretti, e si compilava una lista scritta, in cui si elencava ciò che i rispettivi capifamiglia avrebbero consegnato ai due promessi sposi, all’atto del matrimonio. Tra i nobili e i borghesi la lista, che assumeva valore di un vero e proprio contratto, si faceva su carta bollata.
Con la lista si concretava, nero su bianco, il “patto di matrimonio” e i parenti convenuti ne erano testimoni. In essa vi erano due elenchi separati e dettagliati. Per la ragazza si elencava, in modo analitico, il mobilio (li còmmiti di falignàmu), il corredo, come indumenti e lenzuola (li còmmiti a òttu o a dùdici o a bbinti), le scarpe (scarpi fini e scarpi pi ffóre), le stoviglie (li rruvàgna), le bigonce (li ssécchji) per il bucato e il barile (lu varrìlu) per l’approvvigionamento dell’acqua potabile alle fontane pubbliche o ai pozzi privati. Nelle case non vi era l’acqua corrente, per cui il bagno lo si faceva in una bigoncia o nel semicupio, dopo avere scaldato l’acqua sul fuoco in una caldaia (caudàru).
Per il maschio, l’elenco poteva contenere, oltre agli indumenti personali, un appezzamento di terra da lavorare, un alloggio autonomo, se non si andava a convivere nella casa paterna, un asino, un maiale vivo o macellato, animali da cortile, indumenti e un certo quantitativo di grano da macinare e in parte da seminare (ranu pi la mmàcina e ppi la sémmina).
Compilata la lista dei beni (la rròbba), si fissava orientativamente l’epoca delle nozze e la famiglia del maschio consegnava alla futura sposa i doni che le aveva portato, vale a dire i gioielli d’oro (li birlòcchi): la collana in filigrana d’oro con medaglia (cannàcca) o il collier (lu culliéru) o la catenina con il cornetto (lu lacciu cu lu curniciéddru), gli orecchini piccoli (l’auricchjìni) o gli orecchini grandi (li sciacquàgli), una spilla (na spìngula) e un anello (n’aniéddru).
Concluso il patto di nozze, si consumava un lauto pasto, su un tavolo coperto da una tovaglia nuova (lu misàle nuóvu) riccamente imbandito dalla famiglia della ragazza, in onore degli ospiti.
Se il maschio era brutto esteticamente, ma ricco (prubbijitàriju), poteva aspirare alla mano di una ragazza anche bella ma povera. La roba, come Verga insegna nei suoi romanzi, aveva ed ancora ha un potere e un fascino irresistibile sulla gente. E alimenta anche invidia. Ma è improbabile che faccia nascere all’improvviso, in una ragazza, un sentimento sincero e spontaneo.
In paese, un paio di ragazze, costrette dai familiari a convolare a nozze con due “bruttoni” per opportunità economica, all’indomani del matrimonio furono trovate dai familiari ancora vestite di tutto punto. Il matrimonio, quindi, non era stato consumato. Gli sposi si separarono subito e poi, col tempo, crearono da separati delle famiglie irregolari. Non vi erano nel mondo contadino la cultura e i mezzi finanziari per chiedere l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota, come invece facevano i nobili e i borghesi, in casi del genere, o in presunti casi di questo tipo.
Dopo aver combinato le nozze, il fidanzato si recava sistematicamente a casa della morosa (ci jéva ‘n casa), che tuttavia non veniva lasciata mai sola con lui, perché non ne approfittassero per fare sesso. Si diceva che la paglia vicino al fuoco è attaccata dalle fiamme (“'La paglia vucìn’a lu ffuócu, ci cùrrunu li bbampi!”). Vi era sempre un familiare a fare la guardia e a vigilare sui due. E, anche quando i due innamorati si recavano ad una festa in paese, erano accompagnati dalla madre o da una sorella della ragazza, perché andava tutelata l’onorabilità sia della ragazza che della famiglia. Nella malaugurata eventualità della rottura del fidanzamento, soprattutto se la ragazza fosse stata lasciata dal fidanzato, pregiudizi e pettegolezzi ne avrebbero infangato la reputazione, al punto che difficilmente avrebbe trovato un altro buon partito. Nella peggiore delle ipotesi, era creata, nell’ambiente contadino, una canzone pettegola (na canzóna cacciàta), che sarebbe stata cantata dalle donne per decenni, durante i lavori nei campi. E questa era una vera iattura, per la ragazza e la sua famiglia. Personalmente, ne ho repertato alcune decine di questi canti.
I due fidanzati, normalmente, un anno prima del matrimonio religioso, davano il consenso (lu cunsèntu) davanti al sindaco del paese, dal quale ci si recava dopo alcuni mesi di fidanzamento per contrarre il matrimonio civile (spusà a lu sìnnicu). Secondo la tradizione, però, il vero matrimonio era quello religioso, col velo e l’abito bianco per la sposa (spusalìziu cu lu vèle e l’àbitu jancu), che si celebrava in chiesa.
Un fidanzamento, rotto dopo il matrimonio civile, creava grossi problemi ai due ex fidanzati, che, in seguito, avrebbero potuto creare solo unioni di fatto con altri partner.
Quando delle donne rimanevano vedove, vi erano quelle che si “davano da fare”, sessualmente parlando, e quelle che invece indossavano il lutto per anni e anni, e chiudevano il discorso con il sesso dedicandosi esclusivamente al lavoro, alla crescita e all’educazione della prole.
 
          Fughe amorose, rapimento della ragazza, matrimonio, iniziazione sessuale
 
Nei casi in cui il fidanzamento non era approvato dalle due famiglie, o da una di esse, ai due innamorati non rimaneva che fare la fuga insieme (di si ni fuji – in dialetto siciliano fujitìna), lontano dal paese, e mettere tutti davanti al fatto compiuto. Si rifugiavano in qualche pagliaro o casolare disabitato, o presso qualche parente compiacente, per circa una settimana. Al rientro in paese, si facevano ospitare da qualche parente e inviavano un emissario, con messaggi di riconciliazione e sottomissione, alla famiglia della ragazza. Ottenuto il consenso del padre di lei, i due piccioncini si presentavano e invocavano il suo perdono per il “misfatto” consumato. Quasi sempre, il padre della ragazza, appena la figlia gli arrivava a tiro, le assestava un sonoro ceffone (nu papàgnu) e in tal modo, lavata l’onta subita, consentiva loro di entrare in casa. Il matrimonio riparatore si faceva senza parenti e senza banchetto. Di solito, di buon mattino in chiesa e al riparo da occhi indiscreti. E la sposa non poteva indossare l’abito bianco, perché non più vergine. In casi del genere le due famiglie risparmiavano tutte le spese di nozze, ma gli sposi non ricevevano regali dai parenti. Tuttavia, a partire dagli anni Settanta, cambiò la morale e si cominciò a vedere qualche sposa con l’abito bianco che aveva la pancia grossa, perché incinta di alcuni mesi. In un mondo in cui forma e apparenze contavano spesso più della sostanza, le cose cominciavano a cambiare.

Il regalo agli sposi era il modo per contraccambiare l’invito alle nozze. Un comportamento non dissimile dalle consuetudini attuali: il denaro o il valore dell’oggetto donato, da un invitato agli sposi, si aggira di solito intorno al costo individuale del pranzo, che si tiene in un ristorante di lusso.
Quando le famiglie di due innamorati non erano in grado di sostenere le spese per un matrimonio, ai due piccioncini non rimaneva che fare la fuga amorosa. In tal modo era tutto bell’e risolto.
Di qualche ragazza non più illibata, si diceva che avesse fatto la fuga con le mestruazioni addosso (si n’era fujùta cu li mministrazióni ‘ncuóddru), e in tal modo aveva fatto credere al compagno di essere vergine.
 

Quando una ragazza non voleva saperne di uno spasimante, costui poteva organizzare il suo rapimento: ratto a scopo di matrimonio. La famiglia di lei denunciava il fatto ai carabinieri e, al rientro dei due, il ragazzo era arrestato. Se la ragazza e la sua famiglia non accettavano il matrimonio riparatore, la denuncia per sequestro di persona e atti di libidine non era ritirata. Seguiva il processo con relativa sentenza di condanna alla pena detentiva, che non era lieve, e al pagamento di un adeguato risarcimento alla ragazza.
Coll’approssimarsi del matrimonio, si procedeva al trasporto del corredo nuziale. Una lunga fila di donne trasportava sul capo i vari oggetti (li ciuónti), nuovi di zecca, che i futuri coniugi avrebbero adoperato nella loro casa: bigonce, tavola per lavare i panni (striculatóra), tavoliere (tavulìddru), madia (fazzatóra), barile (varrìlu), portascodelle (scudiddràru), ceste con coperte e lenzuola (cupèrt’e llinzóla), materassi (saccùn’e mmataràzzi) ecc. Tutta la scena appariva anche come “ostentazione” della roba, che sarebbe appartenuta alla nuova famiglia.

Giunta la mattina del matrimonio, gli invitati si recavano a visitare la casa nuova degli sposi, dov’erano esposti i regali fatti recapitare dal parentado. Di solito vi erano le ceste coi servizi di piatti e tazzine (li cunciérti), una grossa bambola sul letto e un cane di gesso dipinto sul comò (nu canu di jìssu pittàtu ‘ncòpp’a lu cumò). Sul letto i parenti lanciavano, come rito propiziatorio e con parole beneauguranti (Sòld’e ffigli màsculi!), manciate di confetti, monetine e banconote di piccolo taglio. Poi si recavano a casa dei rispettivi genitori degli sposi, dove si brindava con liquori artigianali fatti in casa, con alcol, sciroppo di zucchero ed essenze varie, e si degustavano i dolci, anch’essi fatti in casa, come i biscotti di vari tipi (li ppastètt).
Quindi, ci si recava in chiesa e gli sposi erano affiancati, rispettivamente, lui dalla comare di fede e lei dal compare di fede, che si facevano carico del dono delle due fedi. Ciascuno portava dietro di sé i propri parenti in fila per due. Si andava a piedi e di solito i due gruppi si fondevano insieme, in un posto convenuto, prima di arrivare in chiesa, dove il parroco attendeva per la celebrazione del matrimonio. Finita la cerimonia, si usciva dalla chiesa e gli sposi erano investiti da grandinate di confetti. Solo molto anni dopo si è affermata l’usanza del riso. Una volta, poiché la sposa era “chiacchierata”, vi fu una paesana che, anziché i confetti, lanciò dei fagioli bianchi (fasùli janchi) a dispregio. La famiglia della sposa ritenne ciò un grave affronto e ruppe l’amicizia.
Dalla chiesa partivano gli sposi a braccetto e, dietro di loro, gli invitati seguivano in lunga fila per due. Ancora non esisteva il carosello di auto strombazzanti. Al contrario della fila precedente, quella fatta per
recarsi in chiesa, in cui dietro gli sposi andavano i parenti della sposa, stavolta le parti si invertivano e subito dietro gli sposi sfilavano i parenti dello sposo. Come a significare che la sposa era ormai acquisita dalla famiglia del maschio.
 
Di solito, la colonna ordinata degli sposi, con dietro i parenti in fila per due (li mmitàti ca èrnu di salivièttu), attraversava il paese per recarsi al locale, in cui era organizzato il banchetto. Ma era anche un’occasione per mostrarsi con orgoglio ai compaesani. I parenti erano vestiti a festa: gli uomini con abito e cravatta (cu lu vistìtu e la caravàtta) e le donne agghindate (‘ncannaccàte) esibivano gli ori di famiglia. Parevano delle divinità pagane femminili. I genitori degli sposi distribuivano confetti a coloro che incontravano lungo il tragitto.
Raccontava Felicetta un paradosso capitato: “Che scambulón’arricapitàtu! C’èrmu partùti da Li Fuóssi cu li pariénti e ffìglima, ca s’éva spusà a lu cummènt, pi la vija ‘lu campusàntu. Allassacrése, ci minéva nu muort’appriéssu ‘nd’à lu tavùtu, Firdinàndu, cu li pariénti suji. A cquantu putèmmu fa! Avèmm’allungà lu passu, ca quiddru quasi c’arrivava e si mittèva ‘n fila appriéss’a nnuji. (Che stramberia ci capitò! Eravamo partiti da via Lungara Fossi con i parenti e mia figlia, che si sposava nel convento, sulla via per il camposanto. D’improvviso, ci seguiva un morto nella bara, Ferdinando, con i suoi parenti. Quel che potemmo fare! Dovemmo allungare il passo, che quello quasi ci raggiungeva e si metteva in fila dietro di noi.)”.
Lu banchèttu era un sontuoso pranzo nuziale, con alimenti forniti dalle due famiglie degli sposi, consistente in una decina di portate con frutta e dolce, in un apposito locale o sotto un tendone. Si gozzovigliava e molti invitati riponevano in una borsa la carne che non mangiavano. L’avrebbero consumata l’indomani a casa propria. Si beveva e si ballava al suono di un organetto o di una fisarmonica, oppure di un’orchestrina composta da quattro suonatori. Nell’economia di sussistenza, il pranzo di nozze serviva per fare il pieno di cibo e degustare pietanze che non tutti si potevano permettere normalmente. Molti uomini, alla fine della serata, erano alticci e logorroici.
Oltre a consegnare delle buste con denaro agli sposi, durante il pranzo i parenti facevano dei piccoli coni con qualche banconota di valore non elevato (50 o 100 lire della seconda metà del Novecento, pari a pochi euro attuali), che infilavano nel collo di due bottiglie piene di vino. Queste venivano recapitate agli sposi, che toglievano il denaro dalle bottiglie, lo deponevano in un cestino e facevano solo finta di assaggiare il vino in esse contenuto, per non incorrere nell’ebbrezza. La cosa andava avanti fino a che non vi erano più soldi da elargire agli sposi. Se qualche cono era fatto con una banconota da 5000 o 10.000 lire (all’incirca, per dare un’idea, 100 o 200 euro di oggi), questo era considerato un modo per ostentare, da parte di un parente, la propria generosità e far parlare di sé.
Il primo ballo era dedicato agli sposi e, addosso a loro, venivano appuntate dai parenti le banconote di grosso taglio con spille da balia. Alla fine del ballo, la sposa poteva apparire bella e addobbata di soldi, come la statua della Madonna della Libera, quando si ritirava in chiesa alla fine della processione, carica di soldi e gioielli, donati e appuntati dai fedeli su dei nastri appositi o sul suo abito. Durante la danza erano cosparsi sulla testa degli sposi chili e chili di confetti piccoli e grossi (cannillìni e mmènuli), che parevano un osanna allo sciupio.
Erano suonate musiche e motivi per i vari balli: oltre al passetto o one-step, al fox-trot, al tango, al valzer, alla polka, alla mazurca e alla quadriglia, si ballava la tarantella, normalmente in quattro: due uomini e due donne, sino all’estenuazione.
Ancora negli anni Settanta erano suonate due canzoni in voga durante la seconda guerra mondiale, con una sorta di par condicio: una cara ai nazisti, “Lilì Marlen”, e l’altra ai soldati americani che invasero l’Italia dal 1943, “Rosamunda”.
Di regola, le spese di nozze erano divise a metà tra le due famiglie degli sposi. Ma si trattava di cifre lontanissime dai costi degli attuali matrimoni consumistici in ristoranti di lusso.Venuta la notte, finalmente, gli sposi erano accompagnati da parenti e suonatori a casa loro, per passare la prima notte da soli. La mattina successiva, la madre del maschio si recava a casa degli sposi per verificare, sulle lenzuola del letto, la prova della verginità della nuora e del matrimonio consumato. Si racconta che in qualche caso, per mettere a tacere le maldicenze, era esposto con orgoglio al balcone o a una finestra il lenzuolo macchiato di sangue, come una sorta di “vessillo d’onore”. A mezzogiorno i parenti stretti si riunivano con gli sposi e continuavano a gozzovigliare, con ciò che era avanzato del pranzo di nozze e anche con nuove pietanze. Nel mondo contadino non esisteva il viaggio di nozze e la luna di miele si passava cominciando a lavorare da subito per proprio conto, per costruire le basi per una proficua vita in comune (p’abbijà a mmétt paglia sótta). Per i maschi, emigrati nelle Americhe, ci si poteva sposare per procura, dopo che ci si era fidanzati conoscendosi per corrispondenza, grazie ai parenti, agli amici del paese e a qualche fotografia. Poi la sposa raggiungeva il marito. Negli USA, il ricongiungimento familiare avveniva grazie all’“Atto di richiamo”. A volte non mancavano le sorprese: capitava di scoprire che lo sposo, emigrato da qualche decennio senza essere più tornato in Italia, avesse già una compagna di fatto e dei figli.Talvolta, anche se raramente, era lo sposo a raggiungere la sposa emigrata anni prima. Il sesso era importante nel mondo contadino. Ciò che sollazzava la gente, in quanto a sesso chiacchierato, era il proibito, l’irraggiungibile, il comportamento che infrangeva le regole, il piccante, il fatto erotico inventato di sana pianta, che affondava le radici nella morbosità e nella maldicenza, e aveva come oggetto fatti, veri o inventati, riferiti a persone realmente esistenti.

Era normale che i signori si scopassero le giovani contadine, di solito figlie dei loro parzionieri (parzunàli), prese al servizio nei loro palazzi. Ma nel Novecento, dello ius primae noctis, il diritto del signorotto a possedere le ragazze del proprio feudo prima di sposarsi, in paese non vi era quasi traccia. Forse, perché questa pratica apparteneva ai secoli precedenti. Comunque, l’iniziazione al sesso del rampollo borghese avveniva con la compiacenza o per iniziativa del capofamiglia che, in qualche caso, poteva essere stato lui stesso il primo a possedere la serva o le serve di famiglia.
I giovani maschi contadini, riguardo all’iniziazione sessuale, erano svantaggiati rispetto ai figli dei signori. Arrivavano al matrimonio con un bagaglio personale di aneddoti, racconti salaci e tante velleità frustrate. Ma difficilmente con una vera esperienza pratica. A meno che non si fossero impratichiti con qualche zòcchila, prostituta del paese, che spesso li ‘nfranzisàva, cioè trasmetteva loro la sifilide. Oppure, facendo il soldato, con quelle a pagamento nei postriboli. Vale a dire nelle case di tolleranza, abolite dalla legge Merlin nel 1958.
I reduci della prima e seconda guerra mondiale e i soldati degli anni Cinquanta favoleggiavano di rapporti sessuali, consumati con le meretrici nei casini.
Per i ragazzi del paese, lo stare insieme forniva l’occasione per masturbarsi, parlare di sesso e donne. I più grandi d’età millantavano avventure sessuali, che affascinavano i più piccoli.
Un luogo abituale in cui si favoleggiava sulla “gnocca” era il salone del barbiere. Costui, a ogni inizio d’anno, distribuiva ai clienti un calendarietto a forma di libretto profumato di cipria, con le pagine tenute insieme da un cordoncino colorato, su cui oltre ai mesi vi erano stampate le immagini a colori delle dive del momento, nazionali e internazionali. Ma non avevano niente a che vedere con la pornografia, che avrebbe inondato i mercati mondiali a partire dagli anni Sessanta.
Per le ragazze, in fatto di sesso, la realtà era assai diversa rispetto a quella dei maschi. Di solito erano le madri a istruirle. Altre volte, se non avevano già avuto esperienze per conto proprio, erano le compagne più smaliziate, o con qualche esperienza alle spalle, a dar loro qualche dritta.
Comunque, non era raro che i due sposi arrivassero, al momento fatidico, completamente a digiuno di esperienze in materia e dovevano “arrangiarsi”.
La sessuofobia, indotta dalla religione cattolica e dalle classi dominanti, pesava più o meno come i tabù e le inibizioni, che caratterizzavano l’immaginario del mondo contadino.
 
 Famiglia patriarcale, altre forme di rapporto e convivenza, tradimenti
 
La famiglia era un tassello fondamentale della società patriarcale. Viveva unita nella stessa casa, organizzata in modo gerarchico: al vertice c’era il contadino-nonno, poi il primogenito maschio sposato e dopo le donne e i nipoti. Le donne contavano poco, perché il cappello lo portava il maschio. Tuttavia, la moglie del patriarca si faceva valere dietro le quinte ed era lei che ispirava o imbeccava il marito per le decisioni, che poi lui avrebbe esternato come proprie. E talvolta, con un senso di dispregio, i figli, che avevano già una certa età, indicavano i propri genitori come lu bòssu e la bòssa, riscontrati a Montecalvo anche come soprannomi. Si tratta di americanismi dialettizzati dagli emigranti di ritorno dagli USA a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Il termine in lingua è notoriamente boss.

 
Il patriarca era il padre-padrone. A volte possessivo, violento, bestemmiatore e manesco. Ma per fortuna non tutti i capifamiglia contadini si comportavano così. Ve ne erano alcuni che avevano un comportamento saggio ed equilibrato, sia nel rapporto con la consorte che con gli altri componenti del clan. Altri, addirittura, erano così buoni da essere succubi delle mogli (si facévunu métt la còppila ‘n capu o piscià ‘nd’à la sacca; èrnu li mmugliéri ca purtàvunu lu cauzóne).
Ciò che contava nel sistema patriarcale erano la famiglia e il fare figli, per incrementare il numero delle braccia, indispensabili nell’economia di sussistenza, in cui il lavoro non era meccanizzato. Una volta sposati, senza il divorzio, si era legati per la vita. E questo anche se l’amore col tempo svaniva e non c’era più. Certe arpie di mogli potevano rovinare l’esistenza dei mariti. Quindi, anche nella realtà contadina vi erano i separati in casa: coniugi che non andavano più d’accordo ma, poiché tra loro non si consumavano violenze, continuavano a convivere, lavorando regolarmente per il bene dei figli, senza rivolgersi la parola. Si raccontava di famiglie in cui moglie e marito comunicassero per decenni a gesti o a monosillabi, ingoiando rospi da una parte e dall’altra.

L’amore, come sentimento puro e autentico, non mancava nel mondo contadino, ma traspare solo a tratti dal materiale etnico da me raccolto. È nella corrispondenza dei mariti emigrati, che questo aspetto è molto evidente: il sentimento e l’affetto erano dichiarati esplicitamente, e talvolta pateticamente, per iscritto, per tener vivo un rapporto, che, altrimenti, si sarebbe inaridito. E altrettanto facevano le mogli quando rispondevano. Tuttavia, non pochi figli di emigranti erano frutto di adulterio. In casi del genere si diceva che il marito era una copertura (nu cupiérchju).
I motivi della fine di un amore potevano essere la mancanza di dialogo, l’incapacità a capirsi, l’incompatibilità di carattere, le violenze, l’abbrutimento, la gelosia morbosa, l’infedeltà, l’avarizia, l’essere sfaticato, l’etilismo ecc. Nei casi molto gravi si arrivava alla separazione legale (si spartévunu pi mmani di légge).
Nel mondo contadino, i tradimenti consumati conferivano una sorta di patente di virilità al capofamiglia fedifrago. Perché l’uomo era cacciatore. E le avventure sessuali, spesso, erano confidate agli amici: un po’ per vanto, o per orgoglio, e un po’ per sgravarsi dal peso che tali esperienze comunque comportavano.
Qualche coppia sterile, talvolta, adottava il figlio che il marito aveva generato con un’amante.
Capitava pure che qualche signore anziano, vedovo o celibe, ingravidasse la serva giovane. A seguito di ciò la sposava e il figlio generato diventava suo erede: oltre che dei suoi beni, anche della sua posizione sociale.
 
L’omosessualità, invece, era una vergogna insopportabile per la famiglia contadina del gay.
Il tradimento fatto da una moglie, nella società contadina, era un fatto molto grave. Insomma, per un uomo portare le corna era troppo disonorevole e le reazioni violente non mancavano. E poi esisteva il delitto d’onore. Ed era come se la legge ispirasse il “cornuto” a farsi giustizia con le proprie mani. Tanto, la pena prevista dalla legge, che gli sarebbe stata comminata in sede di un processo, era pressoché irrisoria! Il delitto d’onore fu abrogato con legge del 1981.
Se le cose andavano male tra i coniugi, era quasi sempre la donna a essere colpevolizzata. Sarebbe dovuto passare molto tempo, prima che si arrivasse alla parità tra i sessi. E solo molto più tardi, alle pari opportunità.
In passato, si usava fare violenza alle donne a tutte le latitudini. In Trentino ho riscontrato una canzone, che, con qualche variante, girava anche in Padania: “El me marì l’è bon, / l’è bon, / e l’è tre volte bon, / ma el sabo e la doménega / el me ména col baston / (var.: el me ónze col baston)”. Mio marito è buono, / è buono, / è tre volte buono, / ma il sabato e la domenica / me le suona col bastone / (var.: mi unge col bastone).
A Montecalvo, le violenze sulle donne erano all’ordine del giorno. Per albagia, gelosia, ebbrezza, futili motivi o frustrazioni quotidiane i mariti e talvolta i fratelli davano loro un sacco di botte. Nei casi più gravi erano accoltellate e una contadina, accoltellata alla gola, fu ridotta con voce roca e bassa per il resto della vita. Ma continuò a convivere col marito.
Nella considerazione della gente, una ragazza o una donna erano “oneste”, se illibata la prima e fedele al marito la seconda. E questa reputazione contava moltissimo nella società arcaica.
All’inizio del Novecento, l’uscio di casa di due sposi, la prima notte di nozze, poiché la sposa era notoriamente “non illibata” (fémmina mancàta), fu legato dall’esterno con un fil di ferro a una mazza posta di traverso rispetto agli stipiti, in modo che non potessero uscire l’indomani, e spennellato di escrementi. Sulla chiave di volta del portale fu montata la parte frontale di un cranio vaccino con due lunghe corna. Ma evidentemente senza alcun intento apotropaico!
In un altro caso, in cui si vociferava che la sposa avesse il latte nel petto (tinéva lu llattu ‘m piéttu), dei buontemponi “allietarono” gli sposi con canti e sfottò per l’intera prima notte di nozze.
Anche gli ermafroditi del paese, col volto sempre glabro, “pilotati” dalle madri, a volte contraevano matrimonio come i maschi normali. Tuttavia, essendo sterili e/o impotenti, quando le mogli procreavano, era palese che fossero state fecondate da altri uomini. Quindi, quei figli si ritrovavano un padre posticcio.
A tutte queste coppie di coniugi, era normale che si “appioppassero” dei canti pettegoli. Una prassi oggi impensabile, sia per i costumi mutati che per il rischio di denuncia per diffamazione.
Un paio di anni fa, al mercato del paese, mi capitava di sentire una donna, di circa ottanta anni, esclamare: “Vann’asciànnu còccia di cazzi li ffémmini di mo’! Si fannu spusà e ppo’ làssun’a li mariti e bbuónnu soldi! Ah, fannu buónu ‘ssi uagliùni ca nun si ‘nzórunu!” (Vanno in cerca di maschi le donne di oggi! Si fanno sposare e poi lasciano i mariti e pretendono gli alimenti! Ah, fanno bene questi ragazzi a non ammogliarsi!).
 
Ma ricordo pure un antico canto montecalvese, in cui le donne erano additate come sgualdrine: “Munticàlivu jà nu bruttu paese: / li fémmini so’ ttutti sfacciàti, / li bbrazz’apèrte e lu piéttu paràtu / pòvir’uómmini, cóm’hanna fà!” (Montecalvo è un brutto paese: / le donne sono tutte sfacciate, / le braccia aperte e il petto scollato / poveri uomini, come devono fare!).
Oggi, sparita la civiltà contadina, è tutto diverso. I contadini sono una “specie” in via di estinzione, se si pensa che solo il 6-7% della popolazione attiva si dedica all’agricoltura. Tra l’altro, molto bistrattata dalle filiere che dominano la distribuzione dei prodotti della terra.
In passato, si riscontravano pure casi di contadini con due mogli. Sposati però ufficialmente solo con la più vecchia delle due, per non incorrere nel reato di bigamia. Nel Novecento esistevano a Montecalvo almeno tre casi in cui convivevano pacificamente, sotto lo stesso tetto, il marito, le due mogli e i figli. In uno di essi la moglie più vecchia non aveva generato prole, ma amava i figli dell’altra come se fossero propri.
Esistevano anche casi di poligamia di fatto. Non solo i signori, ma pure qualche massaro ricco, oltre alla moglie e alla famiglia ufficiale, aveva altre donne con prole, che costituivano nuclei a sé stanti. Un borghese, coniugato con moglie e figli, che aveva altre donne e figli in paese, così era cantato: “Don G. cu la Balìlla, / téne nu figliu / pi ogni paese!” (Don G. con la Balilla (auto della Fiat del 1932) / tiene un figlio / per ogni paese!).
In certi casi, a una ragazza deflorata o ingravidata, la famiglia del maschio, che sceglieva di non sposarla, pagava il prezzo della dote come riparazione.
Una ragazza montecalvese, Carminùccia, nella seconda metà dell’Ottocento, fu assunta a servizio, come aiutante di cucina, in una masseria sopra la Malvizza, verso Castelfranco in Miscano. Un giovane figlio del massaro se ne approfittò e la mise incinta. Ma non volle sposarla. Fu risarcita con una somma di denaro (dutàta) e licenziata. Il bimbo che nacque fu portato alla Ròta, Ruota degli Esposti, ad Ariano Irpino, e in seguito dato in affido a una famiglia di Montecalvo, che lo allevò. Fattosi grande, questo “figliu di puttana”, che tale era considerato come tutti gli altri figli di “N N”, vale a dire di Non Noti, sposò una giovane contadina, allevata anche lei in affido, perché nata, nella seconda metà dell’Ottocento, da una relazione amorosa tra un’adolescente figlia di signori e un monaco francescano, ospite di quella famiglia, perché era stato chiuso il convento di Montecalvo. Appena nata, anche lei era finita alla Ròta. Sua madre, la cui gravidanza era stata tenuta celata alla comunità, fattasi grande era potuta convolare a nozze con un buon partito borghese.
Capitava pure che in paese, diversi “figli di puttana” si sposassero tra loro e, in questo modo, per la parità di origine, non si creavano discriminazioni e disparità di vedute. Ed erano in genere famiglie “sane”, che duravano per sempre. Avevano assorbito i buoni esempi e la buona educazione delle famiglie affidatarie.

A volte, in passato, le ragazze facevano "voto di matrimonio". Infatti, durante i pellegrinaggi religiosi al santuario della Madonna di Montevergine (Madonna ‘la Shcavunìja) sul Partenio, anche le ragazze montecalvesi, che erano fidanzate, si portavano nella macchia non molto distante dal santuario, e, come erano solite fare quelle di altri paesi, legavano un nodo (nùticu d’amore) con i sottili rami delle ginestre: era il voto di matrimonio. Tradizione esigeva che il nodo fosse fatto solo con la mano mancina. La speranza era di farvi ritorno l’anno successivo, a matrimonio avvenuto, per poterlo sciogliere. Ma tanti nodi erano destinati a rimanere legati per sempre.
 (Questo testo, con frasi dialettali di Montecalvo Irpino, pubblicato sul Corriere-quotidiano dell’Irpinia il 6 dicembre 2010, è fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).
 
Zell, 30 ottobre 2010                                                                        Angelo Siciliano