Il dialetto e il libro di Donato Muscillo

Donato Muscillo, in settembre 2010, mi recapitava con una mail, il suo libro formato word di 104 pagine, “Raccontare il poco – Biàt a códd iórë ca ént a sólchë spaccàt mórë”, edito da “ilmiolibro.it” del Gruppo editoriale L’espresso-Repubblica. Trattasi di un libro di “Versi, dialettali e non, su cose genzanesi”, come è riportato in copertina. Prima di addentrarmi nel suo contenuto, ritengo importante puntualizzare il discorso sul dialetto. A Genzano di Lucania (Pz), a inizio dicembre 2010 si teneva un convegno sul salvataggio del dialetto dal titolo “Il nostro dialetto può assurgere al rango di lingua?”.E si apprendeva dal web che il dibattito che ne scaturiva, dalla questione principale, posta dal tema del convegno, si spostava sul fatto che il dialetto genzanese non ha una tradizione scritta e quei pochi che si sono cimentati nella sua scrittura, l’hanno fatto liberamente, senza aver fissato un codice, vale a dire una convenzione grafica di scrittura. Tuttavia, i convegnisti erano d’accordo su un fatto: “Tutti plaudiamo all’iniziativa di Donato Muscillo che ha proposto la realizzazione di un centro di documentazione del dialetto, ma se non concordiamo una linea comune sui criteri di trascrizione non andiamo da nessuna parte”. Quindi, è giusto porsi il problema di una convenzione grafica di scrittura. Una questione del genere se la posero, diversi anni fa, i poeti dialettali del Trentino e la risolsero accordandosi su un

codice grafico di scrittura con i poeti vernacoli di Lombardia. Per esperienza personale, che per il mio dialetto irpino ho scelto il metodo della grafia fonetica, penso che sia una questione importante, e pur tuttavia relativa. Perché, prima di tutto, l’importante è scriverlo il dialetto. E non secondari sono la sua traduzione in lingua e la registrazione della lettura dei testi da parte dell’autore. E chi lo scrive, basti che indichi il codice o la convenzione adottata. Ma se non vi è chi lo scrive il dialetto, la questione è solo oziosa.

Non meno importante è che il dialetto sia parlato dalla comunità. Prima di tutto in famiglia, come “lingua degli affetti”, e poi anche come “lingua degli ambienti di lavoro”. Il suo uso non deve indurre in vergogna, come succedeva una volta agli studenti dialettofoni, severamente redarguiti dai maestri. E si rafforza se esso si fa affabulazione, se recupera miti e magie, storie di luoghi, fatti e vicende di persone, di cui questa società distratta non sa che farsene.

Tuttavia, nell’Italia dei mille dialetti, il poeta non salva il vernacolo. Ma lo fissa nei suoi testi. Lo rivitalizza e lo rende memoria. Talvolta lo ricrea, grazie alla magia fonica nell’accostamento di frasi e parole sorprendenti e disusate. Insomma, il dialetto si può anche “impastare” linguisticamente. Nel migliore dei casi, il poeta si fa “biblioteca e glossario vivente”. Ma perché il dialetto sia recepito, il poeta non deve scordarsi della tradizione. Deve ricorrere a un uso “illuminato” della memoria, per attingere anche all’immaginario collettivo. Con le imprescindibili giuste dosi di lirismo ed epicità.

Il dialetto può arricchire la lingua ufficiale. Lo scriveva il critico calabrese Antonio Piromalli (1920-2003): “L’arte che nasce dal terreno della cultura popolare e dialettale offre nuove possibilità di studio degli arricchimenti sintattici; esiste ancora, nel dopoguerra, un filone sommerso mantenuto subalterno, censurato, soppresso, che vale la pena di indagare”.

Il libro di Donato Muscillo dischiude lo scrigno della memoria riesumando scampoli di ricordi personali, familiari e frammenti di vita comunitaria, ormai desueti e pressoché dimenticati. Narrazione e lirismo, evocazioni intimistiche, senso epico, nostalgia e rimpianto, amorazzi giovanili, voyeurismi, affetti, atmosfere domestiche, ricordi struggenti, aspetti del proprio vissuto, autocompiacimenti, i canti ascoltati, la perdita dei propri cari e di alcuni amici, i luoghi emblematici del proprio territorio, il passato e il senso d’appartenenza, i sapori, gli aromi, i suoni e un fluire di sensazioni cangianti, legati agli antri domestici e agli ambiti del paese o dei paesaggi sono gli ingredienti dei testi poetici dialettali e in lingua di Muscillo, che, a volte, crea dei veri e propri bozzetti, con dei tocchi impressionistici. Tanta è la cura che mette nell’elaborazione testuale. E si avvertono i profumi di varietà floreali antiche, che ancora persistono, come la malvarosa, il volo del calabrone o della coccinella, gli odori fragranti di pietanze arcaiche, il sapore dell’aglianico fresco e del rosolio fatto in casa. La poesia di Muscillo è spesso epigrafica, pregna di presagi. Che siano dei segnali scaramantici, nell’andirivieni passato-presente e proiezione futura? Sono anche pensieri brevi e veloci – a volte telegrafici – minimalisti – con un intrinseco persistente lirismo. A volte è prosa lirica, sempre minimalista: versicoli non incolonnati ma allineati sullo stesso rigo. Nel libro vi sono anche mini racconti diaristici.

Isolo questi versi in dialetto dalla poesia “Epitaffio per me medesimo” : Mò ca sò grann capéscë pëcchè tènghë / u dócë nmòcchë e i parólë më ènzënë cómë mélë. / Criatur, m’ann pust mpitt l’abbëtinë dë mëlógnë / Eppur vulèss adduvënà i l’òtëm parólë, / quann spësëlèscënë la cascë / e së l’appòggënë a i mòscëchërë: / < Uaglió, ngul a cómë grav mast / Tatóccë, pur da murt >. Tradotti fanno così: Solo da grande comprendo perché so usare / belle parole nate da bocca dolce. / Da piccolo mi hanno appeso al collo l’amuleto di tasso. / Sarei curioso di ascoltarli / quando solleveranno la cassa / per portarla sulle spalle: / <perbacco come pesa, mastro Donato, pure da morto>.

Poi colgo alcuni versi in lingua, in cui il poeta gioca sull’uso delle parole : Mi vanto di poetare, / di saper trattare le parole, / ma per te sola non ne trovo. / Perché?

È importante che Donato Muscillo abbia vissuto sulla propria pelle la “chiamata” e poi assecondato l’“urgenza” della scrittura del dialetto, per un’ottantina di testi con traduzione in lingua. Anche per restituire o donare una parlata scritta agli amici genzanesi. E chi scrive il dialetto con questi intenti, sa tenere a bada quella “ruspatrice di dialetti”, che è la televisione dei talkshow e degli infiniti reality. Sa rifuggire dal mondo di plastica che ci circonda, dalle piaggerie del consumismo e dai valori fasulli. Perché essi tali appaiono a chi ha accumulato esperienze di vita vissuta alle spalle.

(Molte delle 32 foto utilizzate sono state scattate da me personalmente; altre, scaricate dal web, le ho ritoccate col pennello elettronico. Questo testo, pubblicato dal Corriere-quotidiano dell’Irpinia il 18 aprile 2011, è fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).

 

                Zell, 4 febbraio 2011                                                                        Angelo Siciliano