AI GIOVANI DI MONTECALVO IRPINO

Ai trentenni e a quelli più giovani, speranza vitale per il paese.

La mattina del 23 agosto 2005, me n’andavo a zonzo tra vicoli e vecchie case, abbandonate e cadenti, nella parte morta del paese. Digitalizzavo stemmi e conci di chiave, e scendevo in Corso Umberto I, dove incrociavo il giovane Carlo Cavotta. Mi aveva cercato, con l’intento di ricevere qualche input culturale per “Il Pungiglione”. Anche se da una quindicina d’anni scrivo per riviste e quotidiani, ed ultima m’è pervenuta la richiesta di collaborazione dai redattori della rivista “Argo”, finanziata dall’Università di Bologna, e distribuita gratuitamente nelle librerie italiane, oltre che all’estero, quest’interessamento da parte di Carlo mi ha meravigliato e, devo confessarlo, un po’ lusingato. Mi spiego meglio. La lusinga non riguarda me, vale a dire la mia persona, ma ciò che sto facendo da diciotto anni a questa parte, con la ricerca etnica sul campo, la scrittura poetica, saggistica e antropologica, e la ricostruzione iconografica e pittorica della civiltà agro-pastorale del nostro paese, Montecalvo Irpino. Il nostro amato, irriconoscibile, derubato, svilito, distrutto paese.

Derubato, dai terremoti e dall’incuria umana, di significativi edifici antichi, ancora salvabili, ma frettolosamente o abusivamente abbattuti. E dei tanti reperti e oggetti, d’uso ufficiale o quotidiano. Quindi della nostra storia, della cultura e della civiltà contadina, anche se talvolta edulcorata, ma in genere ignominiosamente negata e cancellata. Svilito nelle idee, e pure nella speranza di rinascita e sviluppo. Senza una prospettiva di museo civico. Negato e disordinato urbanisticamente, su una lunga collina selvaggiamente disseminata d’anonimi nuclei abitativi, i cui alloggi hanno spesso l’aspetto di brutte capanne.

Ora, tardivamente, si vanno elargendo fondi, per ripristinare, – ma sarà impossibile rivitalizzarlo –, il centro storico. Ne fu colposamente cancellata l’anima dopo il 1962. Come se quella cancellazione non avrebbe poi inesorabilmente costretto ad emigrare, pure l’anima del popolo montecalvese.

Mi è difficile dimenticare il comportamento di un nostro sindaco, a cui, negli anni Novanta del Novecento, avevo sottoposto delle proposte culturali. Ebbene, mi fu riferito, che lui, in consiglio comunale, a proposito di ciò che andavo proponendo, ebbe a dire: «Ma costui ci riporta il dialetto. Abbiamo fatto tanto per imparare un po’ d’italiano! Cosa dobbiamo farcene, noi, del dialetto?». La cosa singolare è che il padre di quel sindaco era d’origini contadine, e i suoi antenati erano tutti massari. E contadini, si può dire – e non è una vergogna –, sono stati spesso gli avi di coloro che, studiando e migliorando le proprie condizioni sociali, accedevano alla classe dei piccoli borghesi del paese. Oggi, che i “signori”sono spariti, anche le classi sociali non esistono più. Ma pochi hanno memoria di torti e soprusi, che contadini e braccianti hanno dovuto sopportare in passato.

Riprendo il filo interrotto a proposito di Carlo. Si era all’altezza del palazzo di l’aréfici, il fu donn’Andòniju Santusuóssu, finalmente restaurato, sulla cui facciata fanno bella mostra di sé alcune curiose maschere in stucco. Sul muro della casa a fianco, evidentemente frutto di riuso, nella sua attuale incastonatura nell’intonaco rifatto e ridipinto, ce n’è un’altra. Gli facevo notare che esse, assieme a tante altre, sparse sui portali delle vecchie abitazioni, e a quelle, ora ben custodite e valorizzate, del fonte battesimale della Collegiata di Santa Maria, sono simboli apotropaici. Inseriti negli elementi architettonici di case, palazzi e chiese (famosissimi sono quelli della cattedrale gotica di Nôtre Dame di Parigi), erano solo in apparenza degli elementi decorativi. In realtà si tratta di facce mostruose e terrifiche, esposte all’esterno contro l’intrusione di demoni e spiriti maligni, e forse anche contro l’invidia, e janare e lupi pumpinàri, che hanno intasato per secoli sia i vicoletti del paese che l’immaginario collettivo dei nostri progenitori. Insomma, conducevo Carlo quasi per mano, e spero anche con la fantasia, velocemente in una breve incursione nel “magico” montecalvese. E di quest’argomento mi sono occupato recentemente nel saggio breve “Rituali magici a Montecalvo Irpino”, ma ad esso manca proprio la parte apotropaica. L’amico Alfonso Caccese l’ha inserito, con tre miei dipinti antropologici, nel mio sito www.angelosiciliano.com. E sempre questo saggio sarà riportato in un libro, sui rituali magici in Irpinia, di prossima pubblicazione ad Avellino, a cura di Aniello Russo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maschera in Corso Umberto I a Montecalvo Irpino

Poi, sempre nel mio sito, con nuovi dipinti antropologici, sono andati altri due miei recenti saggi brevi, uno sui protestanti e l’altro sugli zingari a Montecalvo.

Mi riferiva Carlo, che i trentenni di Montecalvo non mi conoscono. Lo credo bene, vivo a Trento dal 1973! Ma aggiungo che tanti giovani paesani, o ignorano l’esistenza del mio sito, o si scunfìdunu di navigare in internet. Diceva pure che dovrei fare qualcosa per avvicinarmi a loro, calandomi nel mondo attuale, che si presenta problematico. Devo dire che, per una vita, sono appartenuto al mondo dei giovani, d’età compresa tra i 14 e i 18 anni. Ma a loro insegnavo cose di contabilità e finanza. E non sempre questi argomenti, seppure importanti per le prospettive professionali che offrono, incontrano la passione degli studenti.

Ai giovani montecalvesi, se dovessi suggerire qualcosa, raccomanderei di riscoprire, se ne avessero voglia, anche la propria storia e le proprie radici. Che non sono le sagre dei cicatielli, della birra, dell’agnello e del pomodoro, volgarmente rallegrate dal Martufello di turno. Di non meravigliarsi, se si va a incappare in questioni arcaiche incredibili. Ma quel mondo sconosciuto o dimenticato degli antenati, seppure aspro e faticoso, era portatore di saggezza e giusti valori. La nostra civiltà postindustriale, televisivizzata, seducente, abbagliante di lusinghe e luccichii, consumistica, mediatica e globalizzata li ha smarriti da troppo tempo. Ma dico pure che, rispetto alla mia giovinezza, i giovani di oggi hanno materialmente molto di più. Ma appunto: materialmente, oltre a una grande opportunità, quella di internet. Sono meglio attrezzati, e gli auguro di essere più che alfabetizzati a livello informatico. E direi di non usare la rete solo per chattare. Per carità, va bene anche questo! Ma di navigare per arricchirsi culturalmente, soprattutto se ad essere trascurata è poi la carta stampata. Ed internet può essere anche opportunità di lavoro e collaborazioni professionali. E tante altre cose.

Confesso che ciò che mi aspettavo dai giovani montecalvesi, e mi riferisco a quelli di una decina d’anni fa a questa parte, è che dopo la pubblicazione del mio libro “Lo zio d’America”, nel 1988, qualcuno di loro ne ricavasse spunti, stimoli e idee per ricerche a livello universitario, o per tesi di lauree. Evidentemente era una pia illusione!

Mi diceva qualche anno fa l’amico Aniello Russo, che di suo ha pubblicato oltre dieci libri, che “Lo zio d’America” è troppo innovativo e portatore di un progetto e di un messaggio, talmente nuovi per l’Irpinia, che sarà capito solo dopo venti anni dalla sua pubblicazione. Mancano tre anni al 2008. Finora, nonostante che Radio Ufita, per diversi anni, abbia messo in onda le mie letture vernacole, non è successo granché. Solo i nostri emigranti e gli anziani glottofoni ne rimanevano incantati, e mi hanno mostrato gratitudine.

C’è voluta l’Università di Padova, a fine 2004, per chiedermi una collaborazione, poiché lì stanno studiando i dialetti dell’Italia centro-meridionale.

In questi anni ho scritto la nostra cultura arcaica secolare, nel suo complesso. Un patrimonio, in dialetto irpino dell’Ottocento, di oltre 25.000 versi. È costituito da canti, tra cui il poema “Angelica” di 107 quartine, preghiere medievali, cunti, detti, aneddoti, maledizioni, filastrocche, confessioni degli antenati, poesie e testi erotici. E poi un glossario di oltre 8.000 parole, con 42 termini americani dialettizzati a Montecalvo, alla fine dell’Ottocento, e anche toponimi e soprannomi. Insomma, un archivio etnico e glotto-antropologico completo, che nessun paese ha. Si possono pubblicare una decina di libri. E a questo proposito un amico mi ha sempre preso in giro, perché mi si prospetterebbero le fatiche di Ercole.

Presentai un progetto di pubblicazione alla Pubblica Amministrazione, e sono nell’attesa di notizie da un anno.

Una nostra compaesana, interessata pure lei alla nostra cultura, ed emigrata per lavoro come me, ma a Milano, mi confidava giorni fa che non possiede più “Lo zio d’America”. Quando il suo papà si è spento, lo ha voluto con sé, ‘nd’à lu taùtu, per l’ultimo viaggio. Perché era “suo”. Con lei facevo il punto su quanto ho creato finora. Abbiamo convenuto che, se il progetto fallirà nel nostro paese natale, bisognerà rivolgersi altrove. A musei ed enti privati, magari in quel Nord che ci ha accolti, per cercare di concludere l’opera. Chissà, solo chiacchiere estive in libertà!

D’altronde, quaggiù bastano e avanzano i Martufelli.

 

            Montecalvo, 26 agosto 2005                                                  Angelo Siciliano

                                                                                                  www.angelosiciliano.com