Storie di gente di montagna. Come eravamo e come siamo diventati.

Un libro di Alberto Folgheraiter.

Alla fine del 2004, grazie al sostegno finanziario della Cassa Centrale delle Casse Rurali Trentine – BCC Nord Est, usciva, edito da CURCU & GENOVESE di Trento, I figli della terra di Alberto Folgheraiter, giornalista della sede Rai di Trento che ha alle spalle una decina di libri pubblicati.

Una parte di queste pubblicazioni riguarda la devozione popolare e ripercorre i luoghi dove il rapporto col sacro è continuato nel tempo e ancora oggi sono meta di fedeli, turisti e curiosi.

Un’altra parte di essi ripercorre i flagelli del passato come la peste e il colera, che hanno afflitto non solo i paesi europei ed extraeuropei, ma anche la piccola realtà trentina.

Poi, con linguaggio efficace e immediato, asciutto e preciso, anche se un po’ enfatico, che indaga tra cronaca e storia, Folgheraiter ha continuato ad occuparsi del territorio trentino, ma è passato all’osservazione attenta della sua gente, dei suoi ritmi di vita e degli usi e costumi, ripercorrendo luoghi ed ambienti abitativi, tecniche produttive e ambienti lavorativi, sempre sull’onda di un racconto carico di suggestione, valenze etniche e antropologiche.

I suoi libri sono ricchi d’immagini illustrative, pertinenti e funzionali a ciò che va recuperando e proponendo al lettore, attraverso due strumenti precisi, in linea con la nostra civiltà mediatica dell’immagine: quello visivo, con foto attuali o d’epoca, e quello della scrittura. E si tratta di due strumenti complementari che, nella divulgazione di Folgheraiter, si fondono in un unico percorso con l’obiettivo di fissare nel lettore quel mondo popolare e contadino, che si è talmente trasformato nel tempo da riuscire a conservarsi e a tramandarsi solo grazie alla “memoria”, che non può essere quella della gente, perché le persone cogli anni invecchiano e scompaiono, e con esse la loro personale memoria. E poi i luoghi abitativi sono ristrutturati, per adeguarli alle nuove esigenze di chi ci vive, e così interi borghi sono irriconoscibili rispetto a com’erano qualche decina d’anni fa. Basti pensare che le case nei paesi montani avevano quasi tutte il fienile nel sottotetto, e ora i locali destinati a conservare il fieno per le mucche, che ogni famiglia possedeva per esigenze vitali, sono tutti trasformati in abitazioni. Le botteghe degli artigiani sono quasi tutte scomparse, assieme ai tanti mestieri e agli artigiani stessi, una volta indispensabili per la civiltà contadina. I campi e i paesaggi hanno mutato aspetto per l’introduzione di nuove colture e più adeguate tecniche produttive, basti pensare all’uso del trattore che si è sostituito al lavoro degli animali, e per le nuove attività che ci si è dovuto inventare come quelle agroturistiche.

Anche se il tempo non è più scandito dal ritmo delle stagioni e non ci si sveglia al canto del gallo, o delle campane che non suonano più di mattina, anche se la morte non è incombente come nella cultura contadina e non si è perseguitati da un destino ineluttabile, la “memoria” resta qualcosa d’imprescindibile per l’essere umano, affinché non scompaiano definitivamente certe identità culturali e il senso d’appartenenza. Siamo come siamo, perché i nostri avi erano come li abbiamo conosciuti dai loro racconti, od osservati nel materiale documentario che su di loro si è andato accumulando nel tempo e c’è stato tramandato.

La scomparsa del mondo contadino, purtroppo, non rappresenta solo la scomparsa fisica dei suoi appartenenti. Spariscono con esso anche un insieme di comportamenti e di vita domestica e sociale consolidati nei secoli, i loro strumenti arcaici di lavoro e le tante tecniche lavorative che si basavano essenzialmente sulla fatica fisica, le consuetudini gastronomiche di sussistenza e tutto ciò che costituisce la biblioteca immateriale della cultura orale.

Allora ben vengano i libri che recuperano quel mondo. E bene fanno i musei etnografici a raccogliere oggetti, strumenti, immagini e documenti per ricostruire quella realtà, altrimenti perduta per sempre, per restituirla a noi e tramandarla ai posteri. In tal modo si ha l’impressione che è resa finalmente giustizia a quella classe subalterna di generazioni che ci hanno preceduto. E solo così forse la cronaca di quel mondo si fa storia.

Nel libro I figli della terra di Folgheraiter le foto a colori, o in bianco e nero, sono esaurientemente didascalizzate. I registri di scrittura adoperati sono due, affiancati in colonna nelle pagine: uno è il corpo del racconto che l’autore dipana elencando fatti e persone secondo una sequenza temporale, l’altro è costituito da una successione di note corpose, contenenti non solo citazioni ma anche consistenti stralci da opere edite dei numerosi autori consultati.

Folgheraiter riannoda i fili della memoria e di una realtà complessiva del passato, composta di tante microrealtà e sfaccettature, che l’uomo d’oggi, costretto com’è a rincorrere gli eventi o il successo nel proprio settore di competenza, allettato dalle speculazioni in Borsa, angustiato dalla crescita del costo del petrolio e dall’inquinamento del pianeta, ignora come se il mondo sia stato sempre così, con le sue comodità, il miraggio delle vacanze a Sharm el Sheikh, alle Seicelle o alle Maldive, l’eccesso di cose inutili o superflue, e tuttavia ritenute indispensabili.

Egli ci riporta un mondo povero ma dignitoso, fatto di cose essenziali e di rapporti familiari e sociali che trovavano il loro fondamento nei valori veri ed essenziali in cui credere, e non quelli finti con cui c’inondano i vari reality televisivi.

Chi si ricorda più del flagello della pellagra, patologia grave che colpiva la popolazione che si nutriva principalmente di polenta di mais, o delle tragedie d’interi villaggi che andavano a fuoco perché i tetti delle case erano di paglia? Ebbene Folgheraiter ci rammenta anche queste cose, assieme ad una sequela di fatti sepolti e dimenticati negli archivi, di professioni scomparse, della fame che tormentava la popolazione, delle tragedie della follia, del contrabbando del tabacco e della grappa, dei rimedi popolari contro le malattie, dei figli di nessuno – al Sud li chiamavano “i figli di puttana” – allevati amorevolmente dalle famiglie contadine, delle misere condizioni di vita degli emigranti che, partiti col miraggio del benessere, trovavano anche in terra straniera difficoltà esistenziali non facili da sopportare e superare.

Folgheraiter, con questo libro, ripristina il nostro immaginario collettivo depauperato dal progresso.

(Questo testo, scritto per la rivista trentina Judicaria, è fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Zell, 26 aprile 2006                                                     Angelo Siciliano