Angelo Siciliano Poeta della memoria contadina (Sul quotidiano Ottopagine di Avellino del 19.1.2011 Resto ammirato di fronte alla produzione poetica, artistica e antropologica di Angelo (all’anagrafe Angelomaria) Siciliano, nato a Montecalvo nel 1946, e che, da una vita ormai, ha abbandonato con il “corpo” l’Irpinia.Nel 1965, infatti, aveva preso la strada per Napoli, in attesa di laurearsi alla “Federico II” in economia,poi il servizio militare, e dal 1973 si è trasferito a Trento, dove ha insegnato negli Istituti superiori e tutt’ora vive con la sua famiglia. Egli appartiene, dunque, pienamente a quelli che abbiamo definito i “poeti della diaspora”. Del resto, lo stesso Siciliano, nella “Premessa” ad un fascicolo autoprodotto ed edito in quindici copie nel 2010, scrive: “Pur vivendo a Trento dal 1973, idealmente non mi sono mai separato dalla mia terra natale, Montecalvo e l’Irpinia. 

Solido permane il senso d’appartenenza alla civiltà mediterranea”. Detto questo, occorre anche un’altra precisazione. Il percorso intellettuale e umano di Angelo Siciliano è così ricco, che non può essere sintetizzato in poche formule, e così, pur essendo poeta brillante in lingua, oltre che pittore sperimentale da sempre, ho voluto privilegiare una lettura “dialettale” per uno straordinario libro di cui parlerò a breve. La sua esperienza intellettuale ha inizio con Versi biologici (1977), cui seguono le poesie di Tra l’albero di Giuda e quello del Perdono (1987). Sono due raccolte di componimenti in italiano, che dimostrano un’eleganza e un’ispirazione non comuni, che richiamano alla memoria la migliore produzione dei poeti del Sud, da Scotellaro ad Alfonso Gatto, per arrivare agli autori della nostra Irpinia. Ed ecco alcuni versi di un canto straordinario tratto dalla seconda plaquette: “Il Sud non è morto. Ancora no! / Lo affermiamo, noi della diaspora. / Riponete, i funebri paramenti, / ricacciate le Arpie, / non vengano ancelle dolenti, / non preparate vettovaglie:/ il consòlo non è per questi tempi” (da “Il Sud non è morto”). La poesia meridionalista di Angelo Siciliano si fa, inoltre, civile in altri componimenti, in cui si racconta l’emigrazione degli uomini del Sud, le stragi nere, la corruzione e l’impotenza della politica, la distruzione della natura, la guerra imperialistica, la giustizia che è deficitaria, la crisi delle idee, l’ingiustizia sociale. Un omaggio bellissimo è ai contadini del Sud, alle madri contadine, alla propria madre e al proprio padre, presente in queste raccolte e dunque negli altri volumi, le antologie poetiche cui ha collaborato (Controparole, 1993; Tempi moderni, 2001; Fermenti, 2004; Antologia italiana, 2006), le raccolte edite e i fascicoli autoprodotti, con poesie in italiano e in dialetto montecalvese (Dediche, raccolta poetica, 1994; Trittico dell’abbondanza, fascicolo, 2004; Munticàlivu ‘mpónt’a lu siérru, fascicolo, 2006; Trilogia dell’abbandono, fascicolo, 2006; Versi famigliari, fascicolo, 2010), soprattutto un capolavoro nel suo genere, che è Lo zio d’America. Poesie, cunti, nenie, ballate e detti in dialetto irpino, di Montecalvo Irpino (Av) con una raccolta di maledizioni – illustrazioni d’autore”, Prefazione di Mario Sorrentino, Casa Editrice Menna, Avellino, 1988. Tra l’altro, questa pubblicata è solo una parte della produzione culturale quarantennale di Angelo Siciliano, come chiarisce in una lettera privata inviatami da Zell (Trento) il 12 novembre 2010: “Avrei pronte 3-4 raccolte in lingua, mentre in vernacolo irpino sono 10-12 i libri pubblicabili”. Dunque, un posto rilevante, ma non esclusivo, è occupato dalla produzione dialettale, che trova la prima opera matura e probabilmente più organica nel citato Lo zio d’America. L’obiettivo di Siciliano era, appunto, di recuperare la memoria, in modo per così dire filologico, cioè riportando alla luce non solo la civiltà contadina, ma anche la lingua di questi uomini, che ha subito un mutamento e un declino irreversibile a partire dagli anni Sessanta. Accanto ai versi propriamente legati al mondo contadino, alcuni dei componimenti presenti nel libro sono anche un tentativo di scrivere “versi moderni dialettali” e, aggiunge lo scrittore, “anche se essi paiono in stretta relazione con la mia poesia in lingua, mi auguro possano essere considerati un modo di come il dialetto irpino può rendere forma e contenuti ispirati alla vita di oggi” (dalla “Premessa”, 14). Mario Sorrentino individua nell’Introduzione tre sezioni differenti, la prima, di “rievocazione elegiaca”, la seconda, “lirica”, la terza, “civile” – per la quale opportunamente richiama Scotellaro e Silone –, e analizza accuratamente la metrica, parlando a proposito “di narrazioni in prosa ritmica scandite da pause logico-sintattiche (paralleli illustri sono la prosodia epica germanica – ma quella è allitterativa – e russa – non allitterativa, quindi maggiormente somigliante)” (p. 9). Lo zio d’America racconta, dunque, in “prosa ritmica” un’epopea popolare dei cittadini di Montecalvo come di tutti i meridionali, e quindi l’emigrazione a partire dalla fine dell’Ottocento (condensata nella prima sezione “L’emigrazione e il contesto complessivo”), gli affetti, la morte, il mondo religioso e “magico” (“Canti funebri, religione, magia, miti, detti e malisintenzie”), e quindi argomenti di maggiore impegno sociale (“Proiezioni possibili: ballate, liriche e poesie civili”). Tra le più toccanti della raccolta si segnalano “Cantu dulurosu” (“Canto doloroso”), “Com’agghja fa, tatillu miu” (“Come farò, padre mio”), “Figliu miju, tisoru miju” (“Figlio mio, tesoro mio”), o ancora colpiscono per efficacia le poesie dedicate agli emigranti in Svizzera, al padre, al nonno, alla madre, alle madri del Sud. Ecco alcuni versi: “T’addummànnunu di quiddru / figliu luntanu, e tu / mancu ti piénzi, / ca pur’iddru téne nu panaru / chjìnu di frutti / ca so’ bèll’a bidéni, / ma so’ amari” (“Ti domandano di quel / figlio lontano, e tu / neanche ti immagini, / che pure lui ha un paniere / pieno di frutti / che sono belli a vedere, / ma sono amari”, da “Ohji ma’” = “Ohi ma’”, con temi che fanno pensare ad Antonio La Penna); “Pàtrimu” (“Padre mio”), che sembra richiamare analoghe poesie di Rocco Scotellaro, “Na mamma di lu Sud” (“Una madre del Sud”), che rimanda alla mente un poemetto struggente di Giuseppe Saggese. Ecco l’incipit di questa poesia: “T’abbalisci ‘nd’à ‘ssi ttèrre! / Chi ti lu ffà ffà! / T’accìdi l’àlima. Mancu si tinissi / figlie ancora da mmaritàni!” (“Patisci in coteste terre! / Chi te lo fa fare! / Tu uccidi la tua anima. Neanche avessi / figlie ancora da maritare!”). In questi componimenti, come negli altri in italiano, vi è il segno di una grande testimonianza per un Sud che appare “maledetto” e che non vuole morire, che non deve morire, che deve reagire. Quest’opera è il frutto di una dolorosa diaspora, di un “tradimento” – il leitmotiv degli intellettuali sradicati fuggiti al Nord – nei confronti dei padri, delle madri, della terra, è il frutto di uno sradicamento che seppure ha prodotto una vita ricca di soddisfazioni personali e intellettuali, tuttavia non ha sanato una mancanza nostalgica. Angelo Siciliano, con il grande “monumento” che ha innalzato, un tributo d’amore alla sua terra d’Irpinia, dimostra di essere rimasto qui con il cuore, spesso anche con la mente. Le sue idee, i suoi sogni, le sue emozioni rivivono qui come a Trento e dimostrano che siamo sotto lo stesso cielo, uomini in attesa di un mondo migliore che non rinneghi il passato. * Paolo Saggese, critico letterario, sta scrivendo la Storia della poesia irpina in più volumi. È fondatore e animatore del CDPS (Centro di Documentazione sulla poesia del Sud) creato a Nusco nel 2004, la cui voce è la rivista Poesia Meridiana - Spazi e luoghi letterari per i Paesi Mediterranei e per i sud del mondo. (Questo testo, uscito sul quotidiano Ottopagine di Avellino il 19 gennaio 2011, è nel sito www.angelosiciliano.com).

di Paolo Saggese
critico letterario, fondatore del CDPS*
Montella (Av), 15 gennaio 2011