RIFIUTI IN CAMPANIA
La munnézz ha bisogno di una rinnovata filosofia di vitae del soccorso dell’arte e della cultura, perché diventi una risorsaNapoli si ricordi d’essere stata capitale d’un regno per non rimanere ancora a lungo capitale della Campania munnizzàru d’Italia e d’Europa e la sua storia non diventi munnézz, perché dal suo porto non partano navi di munnézz e dalla sua stazione treni di munnézz, ma container di prodotti tipici non inquinati e messaggi positivi e rassicuranti per la gente, perché i rapporti tra le persone e le Istituzioni non siano munnézz, perché la politica non sia munnézz, perché masochisticamente non si debba invocare l’aiuto del Vesuvio per smaltire la sua munnézz.
Forse è un’utopia ciò che va
predicando il prof. Paul Connett: «“Rifiuti Zero”. Artisti e poeti possono salvare il mondo orientando lo sviluppo e salvaguardando la vita della comunità». Ma sia chiaro: solo pochi dei nostri rifiuti solidi, tra qualche millennio, se questo mondo ancora sopravviverà, saranno reperti archeologici e solo pochi stronzi saranno diventati coproliti.
Intervento di Angelo Siciliano nel blog http://comunitaprovvisoria.wordpress.comLa crescita artistico-culturale extraterritoriale quando la “munnézz”
non era causa di tragedie e non era ancora ritenuta una risorsa
Accogliendo l’invito dell’architetto Angelo Verderosa – e devo dire con mio piacere – a interloquire nel blog http://comunitaprovvisoria.wordpress.com creato in Irpinia, il dubbio è da dove cominciare, perché di cose mi piacerebbe dirne molte. Pur essendo nato a Montecalvo Irpino, vivo a Trento dal 1973 e feci questa scelta per essere “libero” dal sistema di vincoli asfissianti che, dopo il terremoto del 1962, si era affermato in Irpinia con l’instaurarsi del feudo demitiano. E, tuttavia, questo aspetto deleterio non è sminuito dal fatto che pure in altre aree, come ad esempio in quelle rosse del Nord, il sistema non era differente. La voglia di libertà riguardava il lavoro che intendevo fare – quello di insegnante –, ma era principalmente di tipo ideale e culturale. La scelta del Trentino fu fortunata e qui si è realizzata la mia crescita artistico-culturale extraterritoriale, quando la “munnézz” non era causa di tragedie, come attualmente in Campania, e nemmeno era stata scoperta come risorsa (alla stregua di una “munnézz” era ritenuta, fino a che non se ne è scoperta l’importanza, anche la cultura orale delle classi subalterne). Ho sempre guardato al Sud e al mondo mediterraneo, ma sono cresciuto confrontandomi con realtà molto vive e stimolanti quali sono quella trentina e le altre delle regioni circostanti. L’Irpinia, che a noi emigrati è parsa sempre come la “Terra del silenzio”, è uno straordinario “giacimento culturale arcaico” e ciò m’ha indotto a intraprendere un “viaggio” fantastico, ormai ultraventennale, nella cultura orale locale, che ancora continua attraverso la lessicografia dialettale, l’etnografia, l’archeologia sociale, la raccolta dei “reperti” dagli anziani dialettofoni, la riscrittura, grazie alla creatività letteraria in vernacolo e in lingua, e la produzione pittorica di opere etniche mirate. La scoperta di molti reperti archeologici preistorici, da me fatta attorno al casino in cui nacqui e dove erano vissuti i nonni paterni contadini, in contrada Costa della Mènola a Montecalvo Irpino, mi ha trasmesso un’incredibile orgoglio. L’osservazione del territorio e dei paesaggi urbani e rurali dell’Irpinia, m’ha indotto a prendere coscienza dell’influenza nefasta avuta nei decenni, da tanti “geometricchi” e amministratori locali insipienti e pressappochisti, nel degrado o nella cancellazione dei luoghi storici dei paesi e di strutture architettoniche importanti come chiese e palazzi, e delle costruzioni rurali caratteristiche del nostro territorio quali casini, masserie e taverne. Non potendo far molto per salvare le strutture materiali (a Montecalvo, dopo mezzo secolo di totale abbandono, si sta ora recuperando il Castello normanno; ma dell’altro castello, quello in contrada Corsano, semidiroccato, nessuno se ne occupa, solo perché è privato), se non levare “grida di indignazione”, mi sono dedicato alla cultura orale e la mia produzione, non ancora ultimata, di diversi saggi brevi usciti in questi anni sul “Corriere Quotidiano dell’Irpinia”, ha rafforzato in me la convinzione dell’importanza che rivestono la civiltà agropastorale, con i suoi miti e leggende, e tutte le testimonianze che si possono ancora riscontrare e documentare di quanto ci tramandarono i nostri avi. Prova ne è che nel 1990, a Montecalvo, ho “repertato” l’unico poema contadino cantato dell’Irpinia, “Angelica” di 107 quartine, verosimilmente l’ultimo trascritto in Italia e ancora inedito. Con tutti gli altri “reperti” da me raccolti, esso fa parte dell’Archivio della civiltà agropastorale messo insieme in oltre due decenni di ricerca: oltre 25.000 versi in dialetto irpino dell’Ottocento con traduzione a fronte. Insomma, dieci libri tematici, tutti da pubblicare con mie illustrazioni etniche. Potrei mettere a disposizione del blog alcuni miei testi dialettali, con relative letture, opere pittoriche, poesie in lingua e saggi brevi tematici. Per questo primo intervento faccio ricorso a due strumenti che mi sono congeniali: la poesia e la pittura.
La poesia, perché, nonostante sia pressoché ignorata in questa società dei consumi, resta la regina delle arti e rappresenta l’energia vitale. La pittura, perché siamo nella civiltà delle images e mi consente di rendere evidenti, efficaci e caldi certi recuperi e certe idee, soprattutto quando non è riscontrabile o non esiste un’iconografia significativa e pertinente. Alcune di queste poesie sono state già pubblicate, ma le ho poi inserite in un’ampia raccolta, ancora inedita, riguardante il Sud-Mediterraneo. Partono dagli anni Settanta del Novecento – alcune riguardano l’Irpinia – e sono disposte in ordine cronologico. Sono 25 poesie in lingua e 5 in dialetto irpino dell’Ottocento. In generale, traspare in esse un orientamento ecologico e antropologico, come una Stella Polare dei sentimenti, e spesso la storia vi fa capolino. (Tutti i libri e i fascicoli, da me pubblicati finora, e diverse riproduzioni di mie opere pittoriche furono inviati nel 2007 ad Antonio Pica di Lioni, in occasione della Mostra dei libri di autori irpini, e sono conservati nella locale Biblioteca comunale. Moltissimo mio materiale si trova nell’archivio elettronico del sito www.angelosiciliano.com).
I NOSTRI PADRI I nostri padri ararono la piana colmando l’orto di millenni. Alla mangiatoia del salotto mungiamo la mucca dell’arazzo. Abbiamo trascurato l’antico pane. Il fiume morto osserviamo dalle grate del bosco. Di unguento nero imitazioni di margherite. L’altoforno ha essiccato l’umidità dei secoli. Divelta l’ombrosa foresta per il nostro sanatorio. Venaria Reale (TO), 1971 |
HO ESTIRPATO I NARCISI Ho estirpato i narcisi nel giardino e l’unico garofano perché sono morti. Perché sono morti e qui nulla solo si può trapiantare. Perché abbiamo saputo scherzare col niente come fosse qualcosa di umano. Venaria Reale (TO), 1971 |
HO VISTO MIO PADRE Ho visto mio padre e non l’ho conosciuto. Parli chi ha conosciuto mio padre. Coltivava la terra e la terra non era molta odiava le fabbriche e non c’erano fabbriche. Ho visto mio padre e non l’ho conosciuto. Mi ha parlato forte e non l’ho sentito ha detto tante cose e non ho capito. Chi ha udito venga a parlarmi perché mio padre ha detto cose importanti. Ho visto mio padre e non l’ho conosciuto ho incontrato mio padre e non si è ricordato. Torino, 1971 |
IL TESORO IN CITTÀ Abbiamo zappato la collina io e mio padre. Mio nonno raccontava: «Nella terra c’è un tesoro». Tesoro era il grano che sarebbe venuto. Mio padre dice che i tempi sono cambiati, il grano non vale il tesoro del nonno. Dice di andare altrove a tentare. Nella città ci sono fabbriche, si può scegliere tra la sciabola nello sciopero e la causa degli uccisi. Mio padre dice che devo andare in città a tentare. E quando lo dice è già convinto che ho scartato il tesoro della sciabola. Venaria Reale (TO), 1971 |
MALEDETTO SUD Vecchio sud dubbioso. Attesa del calesse da Marte. Componimento di illusioni floreali. Ho lasciato inaridire parti di me gli avi l’ansia risorta Chico è steso sul ballatoio. Un avvoltoio giunge dai lunghi riccioli nella coda. La corrente sbatte il canto per la conca. Vecchio sud maledetto. La ripa attinge usignoli nella barca del fatuo. La malia scruta escrementi di cicala schiaffeggia i cani per coinvolgerci. Questo sud zeppo di rogna parole che slittano dal cervello. Fossili sottovalutati di passate invenzioni. Accudiamo ricordi della colombaia solatia. Sonnambule scriteriate. Il caso smaschera malvagità. Il serpente dei pensieri si protende sulla masseria. Il cavallo è sparito. Danze rituali semplificano la coesistenza. Questo maledetto sud l’ascia nei capelli lo scarabeo nella gola. La morte non sa risolversi non sa risolversi. Il gufo sonnecchia tra gli alberi perniciosi. Montecalvo, 1972 |
EMIGRATO IN SUISSE Il vento gonfia le foglie dei marciapiedi. Nelle baracche fetore di calze. I giorni scorrono bucando le strade ogni tanto qualcuno è folgorato. Si alza il gomito la sera e quando non ti vomitano nel secchio puoi stendere il bucato e guardartelo alla corda per settimane come baccalà. Il vento gonfia le carte dei marciapiedi. Esseri umani o bestie da soma. Si finisce nelle valanghe si issano superflui tralicci. Spesso qualcuno è stirato nelle strade. Ci sorprende il gelo ciascuno nella propria garitta ognuno contro se stesso. Trento, 1973 |
EMIGRATO IN SUISSE Il vento gonfia le foglie dei marciapiedi. Nelle baracche fetore di calze. I giorni scorrono bucando le strade ogni tanto qualcuno è folgorato. Si alza il gomito la sera e quando non ti vomitano nel secchio puoi stendere il bucato e guardartelo alla corda per settimane come baccalà. Il vento gonfia le carte dei marciapiedi. Esseri umani o bestie da soma. Si finisce nelle valanghe si issano superflui tralicci. Spesso qualcuno è stirato nelle strade. Ci sorprende il gelo ciascuno nella propria garitta ognuno contro se stesso. Trento, 1973 |
L’UNIVERSO Il cuore si grippa tra le robinie. La rondine il sud alle spalle senza rimpianti. Più a nord del nord chicchi di galassia. Come allodole canta l’universo. Una lucciola scherza con me. E c’è una formica contro tutti quelli che calcano un dito sulla testa degli altri. Napoli, 1973 |
VIOLA SCANSA Chi non conosce Viola Scansa! Ognuno dovrebbe vederla e farle fare un figlio. Non accoppiarsi con lei: impossibile col vento d’alcol. Ogni nuovo nato rende buona moneta: più di un aborto più d’un morto in guerra. Chi non ama Viola Scansa! Chiunque trascurerebbe la moglie la madre i figli davanti al suo petto. Andremo per la questua col cappello nella mano. Sgraverà nella casa buia muggirà come vacca Viola Scansa. Il cane annuserà gerani fioriranno. Inoltreranno denunce avvieranno accertamenti. Ci accoppieremo ancora con Viola Scansa ubriaca sugli sterpi. Alleverà una figlia solo. Questa perpetuerà la madre: farà figli, tutti da svendere alla borsa delle braccia. E ciascuno renderà come buon emigrato. Trento, 1977 |
L’ANIMA DEL SUD Il Sud scruto dal di fuori come l’anima il corpo da cui trasmigra. Trento, 1986 |
LA GENTE IN ME In me la gente passata presente futura. Avi intraprendenti impavidi approdarono da lidi lontani. Risalirono il Calore l’Ofanto a inseguire cinghiali cerbiatti. Testimoniano vestigia di quanto edificarono sulle coste sulle colline. I corredi funerari sono più vivi e lustri di quando inumavano salve. In me la gente di oggi che lavora e lotta guarda avanti s’interroga reagisce allo sconforto. E tutti quelli partiti dispersi che s’ingegnano nelle nazioni del mondo e ripensano con cuore nostalgico. In me la gente che verrà farà scoperte partirà per altre conquiste si sperderà nel cosmo colonizzerà nuovi pianeti. Trento, 1987 |
DAUNIA IRPINA Le avrebbero inventate più tardi le svendite di fine stagione: accaparramenti sconsiderati bramosie di scialo. Ma la vita allora era segnata: non bastava il voto alle Mefiti a scongiurare il colera la tisi per compagna fedele e importavano i nostri mietitori la malaria dal Tavoliere dauno o la dissenteria per vivande contaminate dal rame di qualche taverna sperduta. L’anofele sorvolava il tratturo vampiro tra le aie a profittare di braccianti abbandonatisi a Morfeo dopo l’immancabile cunto serale. Erano zecche benedette con le pecore abruzzesi a primavera che risparmiavano nel rientro a Campobasso le nostre greggi alle lande desolate sotto Castelfranco. Zell, 1991 |
DONNE DEL SUD Non dimenticatele le donne del Sud forti nell’afa estiva di basoli ai duri barili sul capo irrigidito col fiato gelato di Natale che dagli uomini rudi incassavano gli scatti violenti a impastare bambini di creta carnosa alle grotte di tufo. Non scordatele come mamme a serbare figli dalle angherie paterne che scalciavano la fame di torno in giro ai falò di paglia a S. Giuseppe che sarmenti e rovi a fascine erano a sbiancare i forni nei seminterrati di pece e l’effluvio per i vicoli di fragranza di pane. Sappiatelo ora per sempre quelle madri le abbiamo attinte alle falde profonde e bevute alle canne ombrose del solleone e ci hanno sfamato alle cariossidi magre dei loro volti di raccolti arsi di vento alle romite colline. Esse rifiutano che la vita si fermi e voi lo sapete, giovani figlie, che scorre linfa nelle vostre vene di palpitanti leganti di covoni con la certezza consolidata che nessuno potrà arrestarla: neanche l’alito vizioso di una civiltà involuta. Zell, 1991 |
AL RISVEGLIO* S’è fatta notte fonda al paese dove a ogni casa il frigo sta alla cantina la tivù al focolare non c’è fuoco di quercia che sfavilli né cunti. Da tempo una cultura maligna s’è troppo radicata come una donna presa con forza tante volte ci si è assuefatti alle violenze. Al risveglio del cuore spera un vegliardo tra gli ulivi con le nacchere tra le dita: chissà che non torni ai giovani la voglia a favellare. *Alla memoria di Rocco Scotellaro e Manlio Rossi Doria. Zell, 1993 |
SCRISTIANITÀ Ciò che all’occhio si gode terra scristianizzata da costa a costa aspettative sospese all’equivoco o peggio all’imbroglio. Sufficiente uno scorcio di secolo ai millantatori per affermare qui e là il deserto. Non più approderanno cantori o martiri d’Oriente mistici sapienti o filosofi alle chiese rupestri screpolate d’affreschi. Solo se le stagioni prendessero a rincorrersi a ritroso si raddrizzerebbe forse la sorte ma ogni fondamento di verità si cementa di dubbi e ciò non basta nottetempo né ad altra ora a consolare o infondere coraggio. Zell, 1993 |
CHE TEMPI Ci coprivamo a quei tempi con brache corte legate da spago. Da noi non passavano marinai ma greggi, asini carichi di paglia. Quando le ragazzine non facevano capolino in un pantano che ci pareva lago giocavamo agli zampilli: a chi lo faceva più lontano. Ci compiacevamo come Narciso. Che tempi! E chi se la immaginava la diaspora… Zell, 1994 |
GROVIGLIO ANTICO Partecipi già lo eravamo alla vena di verde tratturo di saliscendi cromosomi nel neolitico. Oggi è che siamo assenti l’occhio irretito al nastro d’asfalto senza greggi e compagni cani le case accasciate a intrigare la memoria violazioni indegne tuttavia tollerate. Non più fraseggi d’allodole Pescasseroli all’orizzonte gli ovini metabolizzati come tutti i caprini la mente cede a chi di più l’alletta senza scampoli di canti né corna neanche quelle paventate dai pastori. Una nenia risuona ignota all’orecchio e da tempo remoto e lento si sbroglia un groviglio celato di culture e mesti riti quotidiani per le terre di S. Eleuterio.* A Sebastiano Martelli. Zell, 1995 * Si tratta di un territorio di Ariano Irpino (AV), confinante con quello di Montecalvo Irpino, e vi passa da tempo immemorabile il tratturo che, da Pescasseroli (AQ), consentiva ai pastori abruzzesi la transumanza sino a Candela (FG). |
ARCHEOLOGIA DEI RIFIUTI Archiviato il passato relegati al presente più che mai legati all’amor proprio al futile dell’inutile oggetti votati tutti ad insopprimibile spazzatura. Nel raccapriccio dello spreco ferite da non sutura. L’archeologia dei rifiuti ci restituisce Milone, sei vittorie ad Olimpia, Pitagora e duecento anime delle sue reincarnazioni. Ma il paradiso, dicono, sono barriere coralline al Mar Rosso dove più d’un vascello sommerso è in gloria. Crotone, 1999 |
ASCIA OSCA* Scuro frammento di pietra come le mani di chi ti scheggiò t’affilò con un cupo presentimento in un'officina mai rivelata. Riassumi il lutto del tempo per l'amore che si dissolve all’ombra della luce nella piega discreta dell’esistenza al respiro lieve dell’aria lumi spenti da nuovi lumi miti divorati da miti religioni da religioni. Inglobi il bene e il male il passato il divenire l’albero abbattuto il cranio fracassato e già preconizzavi i metalli dell’accelerazione temporale. Un soffio malvagio si mescola alla divina invocazione a pervadere un sogno che non rimedia all’oscuro male anche se uno spirito benigno sollecita benevole intercessioni. Zell, 2001 *In agosto 2001 rinvenivo casualmente tra i campi di Montecalvo Irpino, in un fronte di scavo per l’impianto di un nuovo uliveto, un frammento d'un manufatto di pietra unitamente ad alcuni frammenti in terracotta. Il reperto litico si presenta come parte del cuneo di un'ascia di pietra. In seguito esso mi ha molto intrigato ispirandomi non pochi interrogativi. |
IL VINO E IL GRANO Rammento il colore del grano. Ci fu concesso di familiarizzare col biondo di rena sulle colline i rosolacci i rari fiordalisi le perle di sudore dei mietitori le tante dicerie sulle ragazze il fiasco di vino fresco di cantina passato di mano in mano ridendo da bocca a bocca pieno e d’improvviso vuoto di linfa di vite e di terra a fare brio e dare forza il falcetto di affilati denti ad ingannare le janare* nelle notti di plenilunio. Torna la civiltà biologica paesaggi curati nei dettagli il bello involontario dell’eden al pettine delle braccia filari di viti coi grappoli doc il turismo enogastronomico. Erbicidi non hanno inaridito la memoria ai nonni ma i loro curiosi aneddoti s’imbattono spesso in tappati orecchi. Chissà, un tacito rifiuto forse al ricircolo delle parole. Zell, 2002 * Donne giovani, belle e intriganti nate nella notte di Natale. S’introducevano nelle case di notte, attraverso le fessure delle porte chiuse, per fare malie e dispetti a coloro che stavano dormendo. L’antidoto era il sale che si cospargeva all’interno di porte, finestre e balconi. Un diversivo era rappresentato da scope di saggina e falcetti che, collocati dietro le porte, distraevano le janare, una volta entrate, impegnandole, per un’intera notte, nel conteggio dei fili della scopa o dei dentini della falce. Prima che sorgesse il sole, però, erano obbligate a fare rientro alla propria dimora, perché erano nude. Janare deriva dal termine latino janua, porta, e rappresentano l’equivalente delle streghe, ma di queste in genere si pensa che siano vecchie e repellenti. |
HIRPUS HIRPINIAE S’involò l’hirpus totemico per le selve del Partenio allorché scese col branco la lupa capitolina a sottomettere e punire. Qui tra querce e castagni con janare e mannari si consolidò il mito in un sogno disperso di mammoni e folletti. Rivive di sottrazioni nella bolla estemporanea di passioni medianiche nel cono d’ombra della storia. Zell, 2003 |
CRETTO Il Sud che ritrovo un calanco ampio che d’inverno scivola e d’estate più aperta è la ferita e chiara l’argilla asciutta che s’apre in cretto. Zell, 2004 |
PECCARE AI CERASI* Erano quattro passeri adulteri a svolazzare ai ciliegi del viottolo, lontano da essi il peccato, e due monelli ridevano, anch’essi si rincorrevano per quel viottolo gongolanti assai per le sconce parole e osservando le donne le cerase a raccogliere, ne spiavano scure le passere tra gli arti sui rami. Quei monelli, dunque, di curiosità peccavano. * Ad Alfonso Zell, 2004 |
NEL BUIO OLTRE LE CANNE È un pensiero fisso sugli ortaggi a crescere la civetta che stride, ma è un canto? Oltre il muro sfrangiato di canne, la via senza effetti speciali, impercorribile del buio fitto dove sono coloro in oblio che osservano che noi non vediamo e talvolta ci guidano e li percepiamo nei momenti cruciali: il senso lieve della carezza i brividi fitti per la schiena non provengono dal maligno ma dall’appartenenza dov’è l’identità nostra sconosciuta avviluppata nel remoto caos. Montecalvo, 2004 |
FRATELLO CARNALE Ricreo la voce di nostro padre e tu non intendi, rievoco il canto doloroso di nostra madre presto le orecchie ti tappi fratello di latte e di sangue che ti scorrono in corpo i geni borbonici e d’altri dominatori di prima e dopo le cicatrici crociate, le turche impalature, le pratiche infibulatorie. Tiri su case fratello, mattone su mattone che altri si godranno come dimore e se il sisma improvviso non le atterra, mina il cemento dei ricordi, appena scalfisce l’humus omertoso nel desolato paese infestato di fantasmi belve notturne avidi sciacalli. Ma quando la civetta canta fratello, non m’inorridisce più e poi ti spiego gli OGM* che ormai più non siamo fratelli e neanche compagni di strada. Zell, 2004 *Organismi geneticamente modificati con le biotecnologie. |
D’ARIA E DI VENTO D’aria e di vento è il nome nella buia quiete delle stelle oltre l’amore l’odio l’indifferenza idee vaghe come il deserto… Le navi, macché navi!, carrette del mare senza un nome bandiere di apolidi sfigurati nella notte torva senza data marchiata da trafficanti senza nome di emigranti droga ignare prostitute allietata da fantasmi rapinosi vengono da paesi senza nome dove l’inferno è innominato a solcare onde anomale uomini donne bambini inermi per una scommessa anonima epopea per un eden illusorio il passato che torna emigrante iniquo schiavo clandestino approdano in un luogo senza nome dove convivono genti sconosciute intrecci complicità conflitti tollerati il malessere dell’anima non ha nome. D’aria e d’umori è la tempesta alimentata da odi tormentosi… Ma la fame che uccide ha un nome la guerra perenne ha un nome i suoi fomentatori hanno un nome l’AIDS che infetta ha un nome la malaria in agguato ha un nome la siccità che acceca ha un nome il clima impazzito ha un nome l’ambiente devastato è di tutti la disperazione ha un nome l’intolleranza ha un nome viatico della xenofobia e la speranza tuttavia ha un nome. D’aria e di vento è il nome come chi lo scrisse lo pronunciò nel soffio di fuoco o di bora gelida ideando lame di cristallo nell’indifferenza coscienziosa. Nella tempesta che sarà chissà se e quando saremo noi nominati… Krotone, 10 dicembre 2007 |
* Questo testo fa parte del “Trittico dell’Abbondanza”, composto di tre poesie, di cui una in lingua e due in dialetto irpino dell’Ottocento, dedicato alla Madonna dell’Abbondanza, la cui statua è stata ritrovata nel 2001, unitamente a quella di S. Lorenzo martire e al busto dell’Addolorata, in un sottoscala murato di palazzo Pirrotti a Montecalvo Irpino. Essa appartenne alla famiglia di S. Pompilio Maria Pirrotti, nato a Montecalvo Irpino nel 1710 e morto nel 1766 a Campi Salentina (LE), dove è patrono. S. Pompilio chiamava affettuosamente questa Madonna “Mamma bella”. Nella pupilla vitrea dell’occhio destro della statua è visibile un teschio. Lo si ritiene un miracolo del santo, che in vita recitava il rosario con le anime del purgatorio.Il “Trittico dell’Abbondanza”, unitamente ad alcuni miei pastelli con la Madonna dell’abbondanza, S. Pompilio e S. Lorenzo martire è stato donato il 20 agosto 2004 alla Parrocchia di S. Maria Assunta di Montecalvo Irpino.(Chi desideri saperne di più può consultare i siti www.sanpompilio.it e www.angelosiciliano.com).
* Almeno due elementi di questo mio testo, la sifilide e la filastrocca di Agnese, fanno ipotizzare il contatto dei munticalvulìsi, dall’antico nome del paese Montecalvoli, con i francesi. Che un incontro ravvicinato sia avvenuto nel luglio del 1496, lo scrive Francesco Guicciardini nella sua “Storia d’Italia”, edita in tre volumi da Einaudi nel 1971. Infatti, lo scontro militare tra Carlo VIII, re di Francia, e Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli, avvenne proprio ai piedi del monte, tra Montecalvoli e Casalarbore, probabilmente dove si trova la stazione ferroviaria.. Il re francese aveva mire di conquista sul regno di Napoli, che sarebbero fallite, e da qui il saccheggio brutale cui fu sottoposta Napoli, nonostante l’iniziale occupazione pacifica della città e l’accoglienza favorevole della popolazione. La sifilide, arrivata in Europa a seguito della scoperta dell’America, avvenuta nel 1492, fu diffusa dagli equipaggi di Cristoforo Colombo a partire dal 1493. È detta “il mal franzese”, da cui il termine dialettale ‘nfranzisàti, perché i soldati di Carlo VIII diffusero nel Meridione questa terribile malattia venerea nel 1496, attraverso i rapporti sessuali avuti con le donne di Napoli e con quelle di altri territori del regno. La filastrocca di Agnese, da me riscontrata tra i contadini di Montecalvo Irpino nel 1994, è sicuramente molto antica, per via dei tipi di moneta e misura menzionate nel testo: il ducato e l’oncia. Il ducato fu coniato in argento per la prima volta ad Ariano Irpino nel 1140, sotto Ruggero II (vedi Museo Civico di Ariano Irpino), e poi in oro a Venezia nel 1284. Diversi stati imitarono questa moneta. Nella nostra terra, dire “adda caccià li cuócchjili” significa “deve tirar fuori i soldi”. Ciò è dovuto al fatto che i ducati avevano forma di gusci di frutta secca, come mandorle e noci, che, in dialetto, si chiamano cuócchjili. L’oncia, come unità di misura, in uso a Roma e nel Meridione, nel sistema duocecimale equivaleva a 1/12 di libbra, mentre in quello decimale a 1/10. Nel dialetto montecalvese, ónza sta per quantità minuta di una data merce, della grandezza pari a un’unghia. Tra le tantissime monete di rame, da me ritrovate sporadicamente nei campi coltivati di contrada Costa della Menola, ve n’è una con le scritte “République française” sul recto e “Liberté égalité fraternité” sul verso. Fu coniata chiaramente in Francia dopo la rivoluzione francese e la proclamazione della repubblica, avvenuta il 27 agosto 1789. Molte altre monete francesi, in lega d’alluminio, ritrovate sempre nella stessa zona, sono state coniate negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Ma queste sono evidentemente le monetine gettate via dai tanti emigranti montecalvesi in Francia di quegli anni. Di Montecalvo Irpino sono i soprannomi Lu Franzése, Franzitiéddru, Francischèddra, Francióne, Franciscóne, tutti aventi a che fare con il termine francese, e alcune delle tante parole come addunàni, accorgersi, ammasunà, rientrare nel pollaio per dormire, buatta, barattolo, buffètta e buffè, tavolo, cacàgliu e ‘ncacaglàni, balbuziente e balbettare, daccialàrdu, arnese per schiacciare il lardo, jèrmiti, mannello, jurnàta, giornata, maccatùru, fazzoletto da testa, malivìzzu, malvizzo, mèrcu, cicatrice, pindindì, pendente di una catenina, ruva, vicoletto, Santalója, S. Eligio, sciamìssu, soprabito, sciarabbàllu, calesse, tuppu, capelli in crocchia, derivano dalle parole francesi s’adonner, à la maison, boîte, buffet, cacailler, hachier, gerbe, journée, mouchoir, mauvis, merc, pendentif, rue, S. Elois, chemisier, char à bancs, toupet o top. (Testo e relativo dipinto sono nel sito www.angelosiciliano.com e usciranno nel libro Montecalvo Irpino: la memoria e i documenti, di prossima pubblicazione, del giornalista Mario Aucelli).
* A Montecalvoli, come probabilmente si chiamava Montecalvo Irpino intorno al Mille, arrivò verso la metà di luglio del 1132, proveniente dalla Puglia, Ruggero II il normanno, re di Sicilia, Calabria e Puglia. Vi rimase qualche giorno. I baroni meridionali erano in rivolta, volevano più libertà d’azione e poter conservare i propri feudi e privilegi. In Puglia erano stati sottomessi e molto sangue era stato versato a Bari. Anche in Campania erano in agitazione e Ruggero II passò per Montecalvo per affrontare, col proprio esercito, i suoi nemici nel territorio beneventano: il cognato Rainulfo d’Alife e Roberto II, principe di Capua. Sotto Ruggero II (vedi Museo Civico di Ariano Irpino) fu coniato per la prima volta il ducato in argento ad Ariano Irpino, nel 1140, e poi in oro a Venezia nel 1284. Diversi stati imitarono questa moneta. Nella nostra terra, dire “adda caccià li cuócchjili” significa “deve tirar fuori i soldi”. Ciò è dovuto al fatto che i ducati avevano forma di gusci di frutta secca, come mandorle e noci, che, in dialetto, si chiamano cuócchjili. La Dormiente, così chiamata dagli abitanti dei circondari, visibile a decine di chilometri di distanza come una donna distesa, è il massiccio del Taburno, alto 1394 metri. Il testo poetico è in dialetto irpino dell’Ottocento. Per altre notizie storiche vedi Ruggero II Re di Sicilia, Calabria e Puglia. Un normanno nel medioevo, di Pierre Aubé, edito da Newton & Compton a Roma nel 2002. (Testo e relativo dipinto sono nel sito www.angelosiciliano.com e usciranno nel libro Montecalvo Irpino: la memoria e i documenti, di prossima pubblicazione, del giornalista Mario Aucelli).
Zell, 20 febbraio 2008 Angelo Siciliano
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